Corriere della Sera, 15 maggio 2021
Le forze in campo nella guerra Israele-Hamas
È una battaglia in diretta, diffondono immagini e video di bombe sofisticate e ordigni improvvisati. Vale tutto. Israele, giovedì notte, ha postato un tweet dove annunciava l’inizio dell’offensiva terrestre su Gaza, poi ha smentito scusandosi. Ma nel frattempo la notizia era stata rilanciata dai media internazionali. Un errore? Secondo una ricostruzione sarebbe stata un’esca per spingere i capi nemici a nascondersi nei bunker per poi eliminarli con bombardamenti pesanti.
La distruzione della grande rete di gallerie creata nel tempo dalle fazioni palestinesi è diventata una priorità per gli israeliani. Inizialmente servivano per i traffici sotto il confine con l’Egitto – passaggi vitali per ogni cosa, materiale bellico compreso —, poi sono diventati uno strumento di difesa e offesa. Devono proteggere i comandanti, diventano postazioni da cui ingaggiare i soldati, sono usati nella parte nord per infiltrarsi nel territorio ebraico. Ad ogni round del conflitto c’è sempre stata la fase della caccia ai tunnel.
Hamas, insieme ad altre organizzazioni, ha seguito un’evoluzione. All’inizio degli anni 2000 si è affidata ai Kassam, mezzi rudimentali, poco più di tubi dotati di esplosivo, con una portata di pochi chilometri. Quando si chiedeva un commento a Yasser Arafat su queste armi scrollava le spalle, parlava di «fuochi d’artificio». Che però avevano comunque un valore tattico e politico in quanto permettevano ai guerriglieri di colpire – alla cieca – in Israele. Quanto bastava (e basta) per seminare terrore e creare pressione. Dopo vent’anni il quadro è lo stesso, sono solo mutati raggio d’azione e potenza. Le formazioni hanno creato il loro arsenale in due modi. Il primo. Iran e Hezbollah hanno fornito razzi completi e tecnologia per migliorarli; un aiuto condotto attraverso tunnel clandestini che portano in Egitto oppure con il contrabbando via mare. Negli anni passati avevano creato una rete che arrivava da Sudan e Sinai, pipeline poi bloccata da azioni coperte israeliane. Il secondo. Operai palestinesi hanno imparato a costruirli usando residuati, materiale civile, rottami, metalli. Li hanno assistiti elementi locali in contatto con altri all’estero, diventati – quest’ultimi – l’obiettivo di un paio di omicidi da parte del Mossad (in Tunisia e Malesia).
Secondo gli esperti nei depositi di Gaza sono conservati almeno 30 mila «pezzi». Da qui un’alta cadenza di tiro. Un’analista citato dal New York Times ha sottolineato che nelle prime 24 ore di conflitto sono stati sparati 470 «proiettili» di vario tipo mentre nella crisi del 2012 erano stati 312 e nel 2014 192. E poco importa se non sono precisi, raggiungono comunque lo scopo. Costringono la gente nei rifugi, possono indurre Israele a passi falsi, fanno vittime. Intanto i palestinesi continuano ad aggiornare la produzione, due giorni fa ci sarebbe stato il battesimo del fuoco per l’Ayyash 250, con portata di 250 chilometri, dedicato a un famoso leader. I gruppi hanno anche impiegato droni esplosivi che sono la copia di un modello iraniano, ulteriore prova della collaborazione stretta.
Israele si affida allo scudo anti-missile Iron Dome. È efficace, costoso – 50 mila dollari per ogni ordigno – però è sommerso dalle «raffiche», circa 2.000 i razzi sparati. È impossibile stoppare l’ondata progressiva e continua. Pesanti le incursioni con caccia e droni. I target sono le postazioni di lancio, i team di serventi, gli ufficiali. Ma la distinzione tra obiettivi militari e civili in un’area ristretta come Gaza è relativa, le conseguenze sono gravi per i civili. Ed arriva il momento in questo confronto senza fine che Israele deve considerare un’offensiva terrestre con tank, blindati, soldati e mobilitazione di riservisti (per ora 9 mila). È l’opzione meno gradita dallo Stato Maggiore che negli ultimi anni ha preferito affidarsi a missioni «da lontano» usando apparati ad hoc, in particolare l’aviazione. Così ha centrato centinaia di siti in Siria. Entrare nella striscia comporta perdite, è un’invasione in un’area densamente abitata, non garantisce un successo. Inoltre per i guerriglieri – che temono un colpo di maglio – è sufficiente catturare un prigioniero per costringere l’avversario a negoziati non voluti.