Corriere della Sera, 15 maggio 2021
Pochi figli, un disagio in numeri
L’Italia ha appena vissuto il più rapido calo di popolazione mai registrato nella sua storia unitaria ad eccezione del 1919, anno di febbre spagnola. Nel 2020, abbiamo perso quasi quattrocentomila abitanti. Anche questa volta una pandemia ha contribuito drammaticamente alla recessione demografica, ma cercare di spiegare tutto così significherebbe mettere la testa nella sabbia. È da sei anni che la popolazione in Italia non fa che scendere, anno dopo anno. Qualcosa del genere non era mai accaduto in un secolo e mezzo di Stato unitario, al massimo c’era stato un biennio di calo proprio all’uscita dalla Prima guerra mondiale. Invece ora siamo in tempo di pace eppure dal 2015 abbiamo già perso poco meno di 1,1 milioni di abitanti, senza mai riuscire a invertire la rotta.
E anche se lasciamo per un momento da parte i valori e la psicologia di una nazione, un fenomeno del genere avrà sempre conseguenze concrete. Poiché in media un italiano spende quasi 17 mila euro all’anno in consumi (mangiare, vestirsi, riscaldarsi o andare in vacanza), oltre un milione di abitanti in meno alla lunga creano differenze strutturali. Equivalgono all’uno per cento di prodotto interno lordo in meno, ogni anno: meno consumi, minore fatturato delle imprese, meno investimenti per vendere prodotti a una platea che si restringe e invecchia, meno gettito fiscale, meno capacità di sostenere i sistemi di welfare.
P er un Paese in reces-sione demografica, la crescita necessaria a sostenere il debito pubblico più alto della sua storia diventa una chime-ra. Non siamo in equili-brio, non possiamo semplicemente rasse-gnarci all’idea di un’Italia un po’ meno popolata. Anche perché tutto questo non nasce oggi, ma viene da lontano e rischia di proseguire a lungo essendo un fenomeno che le classi dirigenti del dopoguerra non hanno mai cercato di governare. L’hanno lasciato a se stesso, come fosse parte della natura e non della politica. Del resto nel 1946 un’Italia in macerie conta-va il maggior numero di nascite d’Europa, quasi 200 mila più della Francia, 300 mila più della Germania Ovest e molte più della Gran Bretagna. Anche trent’anni dopo gli italiani continuavano a fare più figli degli europei negli altri grandi Paesi. Poi l’ingranaggio si rompe. La dinamica si inverte. A metà degli anni ’80 un’Italia matura, pacificata dopo gli anni di piombo, libera dall’iperinflazione, è già passata dal primo all’ultimo posto per numero di nascite fra i grandi d’Europa. Eravamo in grande vantaggio, ci siamo trovati in enorme svantaggio. Durante il dopoguerra siamo passati da oltre un milione ad appena 400 mila nascite all’anno, mentre la Francia ne ha regolarmente man-tenute fra 700 e 800 mila pur attraversando la quarta e la quinta Repub-blica, crisi, recessioni e tempeste. Si vedono qui i segni di una classe diri-gente, se c’è. Perché quando c’è capisce una dinamica e la governa; non la lascia a se stessa. Le élite francesi hanno dato una direzione alla demografia del loro Paese, sapendo che è l’infrastruttura di base di una comunità. Hanno curato la spina dorsale della nazione. Le élite italiane, ammesso che fossero tali, non ci hanno dedicato un solo pensiero. Il risultato è che dopo la guerra gli italiani erano tre milioni più dei francesi e ora sono 8 di meno. I bebè erano un quarto di più, ora poco più della metà. Alla luce di questa strana storia, suonano diverse anche le parole di Draghi ieri agli Stati generali della natalità. Il premier ha parlato di politiche per la famiglia e il sottinteso è che per funzionare devono avere una persistenza tremenda, pluridecennale. Così Draghi sta dicendo che l’Italia ha bisogno di una vera classe dirigente, aperta, capace di ricambio, ma stabile nel dare una direzione nelle cose che contano. È una sfida che va oltre la vita del suo governo. Ma se avrà contribuito a metterla a fuoco, allora ne sarà valsa la pena.