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 2021  maggio 15 Sabato calendario

La tv che manca alla Rai

Ormai è un rito. Ogni tre anni «la Rai ha bisogno di una riforma radicale» (ieri lo ha detto Enrico Letta). Qualcuno invoca «il modello Bbc», qualcun altro tuona che «i partiti devono uscire da viale Mazzini!» riscuotendo ampi consensi ma al momento delle nomine del nuovo vertice magicamente i partiti rientrano da dove in effetti non sono mai usciti e si ricomincia. Come una serie tv. Se dovessimo affidarci all’esperienza dovremmo dirci che la Rai non si può salvare, nel senso che non può diventare altro da quello che è: la più grande industria culturale del Paese zavorrata da una spartizione politica che tutti apparentemente aborrono ma a cui non sanno rinunciare. Prendete il pilastro dell’informazione: l’ultimo che ha provato a cambiare la logica per cui ogni telegiornale deve riflettere la visione di un partito unificando le redazioni è durato meno di un gatto in tangenziale.
Eppure il momento perfetto per provare a cambiare la Rai è adesso. Per tre ragioni. La prima è politica: il fatto che un governo con una maggioranza amplissima sia guidato da un presidente del Consiglio che non viene dai partiti e il cui futuro personale non dipende dai partiti. Da questo punto di vista Mario Draghi è già «il modello Bbc».
La seconda ragione è storica: l’Italia si sta rapidamente avviando verso la più importante ricostruzione dalla fine della Seconda guerra mondiale. Con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza nel giro di cinque anni proveremo a realizzare sia la transizione ecologica che la trasformazione digitale. Fra qualche mese verranno aperti centinaia di cantieri, creati migliaia di posti di lavoro. È la scommessa della nostra vita, non la possiamo sbagliare. Grazie all’Unione Europea ci sono le risorse per arrivare al traguardo ma i soldi non bastano a cambiare un Paese: una rivoluzione di questo tipo è anzitutto culturale, va tradotta nei comportamenti dei cittadini, rafforzando ove necessario le loro competenze. Sessanta milioni di italiani vanno accompagnati nel futuro: e come pensiamo di riuscirci senza la capacità della Rai di raccontare, spiegare e informare entrando nelle case di tutti?
La terza ragione è tecnologica: la Rai è invecchiata. Già il fatto di continuare a chiamarla “servizio pubblico radiotelevisivo” lo dimostra: Internet non esiste. Eppure sempre più utenti ogni giorno fruiscono di contenuti audio e video, anche della Rai, senza accendere la radio o la televisione. Lo fanno tramite il personal computer o lo smartphone. E lo fanno quando vogliono. Ancora venti anni fa per vedere un film in prima serata c’era un giorno della settimana dedicato; quando è arrivata la tv satellitare, sono nati canali tematici dove potevi vedere un certo film ogni giorno a ogni ora; adesso il palinsesto è diventato il motore di ricerca di Netflix, Amazon Video o della Apple Tv dove vedi il film che vuoi quando ti pare.
Per la gran parte dei giovani è così ed è una cosa che non si può arrestare. La Rai invece è ancora costruita per la messa in onda delle reti: assomiglia a quei giornali in cui tutto il lavoro della redazione è orientato al giornale di carta e il sito web si aggiorna nei ritagli di tempo. Non a caso alla Rai i diritti per la trasmissione via web sono chiamati diritti ancillari o secondari e quasi sempre sono esclusi con il risultato che si spendono milioni per produzioni che dopo un mese trovi su Netflix o Amazon.
Insomma, va ricostruita la catena del valore per l’era digitale. È un tema di modello industriale, che non sta in piedi. Ma anche di progressiva irrilevanza: se non cambia strada la Rai diventerà sempre meno rilevante.
Qualcosa in questi anni è stato fatto: del resto ogni tre anni riparte la promessa di “diventare digitali” e qualcosa viene fatto. Per esempio RaiPlay con i suoi 20 milioni di abbonati in due anni è un successo; e a fine giugno debutta RaiPlay Sound, che finalmente porterà la produzione radiofonica nel mondo dei podcast, contenuti da ascoltare quando uno vuole con lo smartphone. Non si parte da zero insomma ma serve uno scatto in avanti. Lo stesso che ha fatto proprio la Bbc qualche mese fa con la nomina di una capa dei contenuti, Charlotte Moore, che ha messo al centro della sua radicale riorganizzazione il player, l’app di distribuzione dei contenuti. Il punto, ha detto Moore, non è dove ci guardano o ci ascoltano: il punto è fare i programmi più belli e portarli ovunque. Per riuscirci l’obiettivo non può essere “accontentare i partiti”, ma avere in mente solo gli utenti.