il venerdì, 14 maggio 2021
Stefania Auci: «Io, la Sicilia e i miei Leoni»
«Winter is coming», l’inverno sta arrivando. Il motto-marketing della fortunata serie tv Il trono di spade è stato scelto per la promozione del secondo episodio della saga sui Florio di Stefania Auci, L’inverno dei leoni. L’attesa per l’evento è ben rappresentata da un cartonato esposto nelle vetrine delle librerie italiane: sotto il succitato slogan, c’è un calendario a strappo che consente di aggiornare ogni mattina il conto alla rovescia, verso l’uscita prevista il 24 maggio (data simbolica? Quel giorno nel 1915 l’Italia entrò nel gorgo della Grande Guerra). Basta un piccolo sondaggio, da Milano a Roma, per sentirsi dire dai librai: «Ho clienti che da un anno chiedono: quando esce il seguito? Hanno letto più volte il primo volume, ora vogliono il secondo. E anch’io. Sapesse che voglia che ho di andare a Palermo...».
Grand Tour Sicilia: ne è partito un altro, dopo quello settecentesco di Goethe, quello ottocentesco di Maupassant, quello novecentesco del Montalbano di Camilleri. Sulle ali di un libro, si rinfresca il mito mai domo della Sicilia, delle sue epopee, delle sue metafore. Fenomeno che spariglia addirittura le stagioni: a ridosso dell’estate, arriva l’inverno dei Florio. Unica terra al mondo a sorpassare anche le leggendarie città d’arte italiane, accalappiando l’immaginario collettivo grazie alla sua atmosfera: non solo opere d’ingegno da andare ad ammirare, ma anche fantasmi del passato che ancora si aggirano tra maestose rovine. Qualche dato, per capire: il primo episodio della saga, I leoni di Sicilia, ha venduto 650 mila copie in Italia, ed è in corso di traduzione in 32 Paesi. Più di cento settimane in classifica, una serie tv in preparazione. Successo al quale non è estraneo neppure il lavoro della casa editrice, la Nord, tra le prime negli anni Settanta a far conoscere in Italia i grandi autori di fantascienza e fantasy.
Stefania Auci, classe 1974, trapanese trapiantata a Palermo, laureata in studi giuridici, insegnante, due figli di 16 e 14 anni, già autrice di un romanzo storico e di un pamphlet sulla scuola con Francesca Maccani: non sente - le chiedo - il peso di avere rinverdito l’eterno mito siciliano, in fondo lo stesso del Gattopardo, dei Beati Paoli, della Belle Époque?
«Mamma mia, detto così... nel 2015 ho iniziato semplicemente con l’idea di raccontare la storia di una famiglia, come io stessa avrei voluto ascoltarla. Cercavo un altro tipo di Sicilia e mi sono accorta che gli interlocutori si sorprendevano: ma guarda un po’, dicevano, davvero c’era una Sicilia così? L’immagine della Sicilia era tutta vittime di mafia, piovre, delinquenza, malavita. Poi il maestro Camilleri ha aperto un’altra porta. Ho seguito i suoi passi».
E ora, all’indomani del boom editoriale, cosa pensa di questa immarcescibilità del mito siciliano?
«È la scoperta di un’altra Sicilia. Con una storia differente da quelle finora raccontate. Per troppo tempo ha tenuto banco il tormentone della Sicilia arretrata, di un Sud la cui storia era tutta in regresso. E invece così non è».
Eppure io, siciliano come lei, sono cresciuto in una città dove gli operai dei cantieri navali in corteo cantavano: “Sicilia, Sicilia, Sicilia mia, c’è cu mancia e cu talia, avi a finiri stà camurria”, che tradotto con qualche approssimazione vuol dire: “Sicilia mia, c’è chi mangia e chi si limita solo a guardare, deve finire questo tormento”. Erano figli dei Vespri e dei Fasci siciliani, dei moti contro i governi nazionali, non certo romantici aristocratici...
«Possiamo anche dire che una certa storia è stata ristretta a certa borghesia, all’aristocrazia, ma c’era eccome. Ci sono stati legami fortissimi con la Francia e la Gran Bretagna; oppure, quando si dice che in Sicilia non ci sono stati movimenti artistici, non si tiene conto che si andava in Francia, o in Toscana, e quelle tendenze venivano poi importate. Non c’era solo la Sicilia dei campieri e dei carusi, delle zolfare e dei contadini piegati sotto il sole. Se Garibaldi ha potuto guidare l’impresa dei Mille, è perché sapeva che sarebbe stato appoggiato. C’era una relazione diretta con l’intellighenzia piemontese. Poi ci fu il tradimento dell’Unità, certo, ma quella è un’altra storia. Resta il fatto di una relazione diretta e molteplice tra Piemonte e Sicilia. Nessun cambiamento è piovuto dal cielo».
E veniamo a Tomasi di Lampedusa, al “tradimento” dell’Unità d’Italia...
«Ma Tomasi è anche altro. Stava a cavallo tra due mondi. Uno elegante, fatto di lussuose ritualità, che tramontava, e un altro segnato da cambiamenti inesorabili. Tomasi cristallizza la memoria. Vive negli anni Cinquanta, in cui la sua cultura e il suo stile di vita non esistono più, il palazzo nobiliare è distrutto dai bombardamenti, le persone accanto a lui muoiono. Si confronta con un nuovo mondo che lo attrae e lo respinge. Ne risulta una profonda malinconia. Ma con lucidità comprende anche perché il vecchio mondo non può più sopravvivere».
Non è che il mito Sicilia sia tutto qui, nell’eterno racconto di un passaggio tra mondi differenti?
«In De Roberto, con I Vicerè, c’è una fotografia dello stato delle cose. Una semplice rappresentazione, pur con tono critico. In Tomasi, invece, il mondo che tramonta è filtrato dalla malinconia, anche delle occasioni mancate. Mette il sigillo su un mondo importante che non ebbe il coraggio di agire quando avrebbe potuto. È questa una delle critiche che muove al suo mondo. Se avessero avuto più coraggio, il futuro sarebbe stato differente. È amaro, doloroso, estremamente sincero e non fa sconti. Quando descrive le donne al ballo come "scimmiette" formula un feroce attacco all’endogamia del sistema siciliano. Tomasi è il convitato di pietra del mio libro».
E i Florio? La loro storia si fa ora più drammatica: la morte dei figli, la rabbia e volontà di crescere, i rapporti col potere politico, la tonnara di Favignana, un mito nel mito, il mare come fonte di vita ma anche come pericolo.
«Sono il simbolo di una Sicilia “grande e potente”, il cui passato è diventato mito. Ci sono la Belle Époque, il Liberty, ma anche una questione di misura: il valore personale, l’abilità di confrontarsi con la politica. Poi rivelano però anche hybris, inesperienza, incapacità di capire il tempo in cui vivevano. Ma è colpa anche di quel tempo, non solo loro».
In che senso?
«Il mondo che ballava sul Titanic è il mondo dei Florio. Non tutto era mito. Si iniziò a percepire la povertà, ci fu in Sicilia un movimento operaio, si pubblicavano riviste che anticiparono le esperienze sindacali. È vero, anche qui c’è da togliere un po’ di polvere, quando si dice che in Sicilia non c’erano ribellioni. Non è vero: qui sono nati i Fasci, c’era coscienza di classe, Alessandro Tasca di Cutò era detto il “principe rosso” perché socialista, non perché rosso di capelli. La Sicilia non è solo il mito dei greci, latini, normanni, arabi. Una città come Palermo era in competizione con le grandi capitali europee».
Merito dei Florio?
«Il famoso sacco edilizio di Palermo abbatté una città-giardino. Per capirci, era una città concepita come il quartiere Coppedè di Roma, con un’unità stilistica da via Notarbartolo alle Croci. Dal Politeama al Massimo diventava addirittura esplosiva. È stata distrutta».
A proposito di mafia, la saga tocca lo scabroso tema dell’omicidio Notarbartolo e dello scandalo del Banco di Sicilia, per gli storici il primo delitto di alta mafia. Ma non c’è via d’uscita tra il descrivere una Sicilia tutta mafia oppure raccontarla come sterilizzata dal suo cancro?
«Anche in questo caso, ho trattato il vissuto della famiglia e non la storia della mafia e del malaffare. Tutta la storia della Sicilia è intrecciata con il suo peccato originale. Una certa mentalità collettiva si registra sempre, nel corso della storia. E chi lo nega mente. Poi c’è il legame tra i Florio e la politica. Sono loro, per la prima volta, a coniugare la finanza con le istituzioni. Non per caso Ignazio Florio senior diventa senatore del Regno. Ma anche qui, non attribuirei loro tutte le colpe. Avevano bisogno della politica. Intanto, uscivano di scena i leader che avevano fatto l’Unità, in gran parte provenienti dal Sud. I nuovi vennero dal Nord. E la Storia cambiò».
E il fascismo?
«Doveva molto ai Florio, gli fecero campagna elettorale. Però attenzione: l’appoggio non fu solo dei Florio, ma di tutta l’aristocrazia e l’alta borghesia italiana».
Donna Franca Florio è la grande protagonista della saga.
«Una donna estremamente moderna. Una pierre di se stessa, che ha saputo costruirsi un mito personale. Alla fine rimane prigioniera: tollera i rapporti poco felici del marito, si disinteressa della situazione patrimoniale della famiglia. Rivela la sua fragilità ma, dal punto di vista umano, supera prove ardue. Sfido chiunque a passare quel che ha passato lei».
Cosa le hanno lasciato i Florio, oltre al successo?
«Come loro, in Sicilia mi sento un po’ straniera. Ma non pretendo mi amino tutti. Voglio essere una persona felice, divertirmi mentre scrivo. Per me scrivere è come arredare casa. Giri, smuovi, fai. Senza pretese di perfezione».