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 2021  maggio 14 Venerdì calendario

Cinzia, la figlia di Bearzot, grecista all’Università

È vero che è stato suo padre, Enzo Bearzot, ad avvicinarla alla cultura classica?
«Sì, quando ero piccola mi raccontava le storie dei miti greci e romani, mi citava Orazio. Prediligeva questo poeta. Sa perché?».
Perché?
«Perché mio padre ammirava la peculiarità tutta oraziana di saper vivere con poco, l’assenza di cupidigia e avidità che ha segnato la vita del poeta. Papà aveva una vera vocazione al racconto. Ecco perché mi faceva entrare nel mondo antico attraverso storie semplici, come le vite dei poeti. E per me è stato facile, dopo, fare Lettere classiche».
Cinzia Bearzot, 65 anni, da venti è ordinaria di Storia greca all’Università Cattolica di Milano ed è una delle più importanti studiose di cultura classica in Italia. Suoi, per esempio, sono i commenti alle Orazioni XII e XIII di Lisia, quelle che affondano la lama nella crisi delle istituzioni democratiche. Ma Cinzia Bearzot è anche la figlia del grande Enzo, detto il «vecio», il commissario tecnico azzurro del trionfo ai Mondiali 1982, mancato ormai undici anni fa. E mercoledì, quando ha guidato le premiazioni degli studenti partecipanti alle Olimpiadi di Lingue classiche (che hanno coinvolto 239 scuole), la professoressa ha voluto ricordare suo padre.
Era severo?
«Una volta riportai un sette in matematica: venne giù la casa. Non tanto per il voto in sé, che non era poi così male, ma perché lui era convinto che io valevo molto di più e che, dunque, stavo sprecando il mio talento».
La stessa lezione che impartiva in campo.
«Per lui il calcio era niente senza una lezione più profonda dietro. Era un uomo colto ma soprattutto curioso. Aveva fatto il liceo classico con ottimi risultati. Poi era stato nei Salesiani di Gorizia. Lo sa che voleva fare il medico?».
E poi che cosa è successo?
«Raccontava sempre che quella era la sua vera vocazione, la sua carriera doveva essere in camice bianco. Poi però fece un provino all’Inter e, be’, fu troppo bravo, ecco».
Ma la sua carriera nel calcio è stata perfetta. Maglie nerazzurra e granata, «il miracolo italiano» in Spagna, la decisione, vincente, di puntare su Paolo Rossi.
«Sì, ma le racconto un altro dettaglio. Una volta mi confessò che era preoccupato per me. Io a scuola andavo bene, stavo facendo un buon percorso alla Cattolica di Milano tant’è che ho ottenuto un posto da associato a trent’anni».
E allora che cosa lo preoccupava?
«Me lo disse qualche tempo dopo. Temeva che qualche improvvisa passione potesse farmi deragliare dalla mia strada. Temeva l’abbaglio, la seduzione del qualcosa d’altro . Quello che per lui era stato il calcio. Quando me lo raccontò fece questa osservazione che non dimenticherò mai: “Vedi – mi disse – a me è andata bene ma avrei potuto rimanere un calciatore di serie C”. Aveva capito che dalle grandi passioni si rischia di rimanere scottati. Questa è stata una delle due grandi lezioni che mi ha trasmesso».
Qual è stata l’altra?
«Mi ha insegnato a guardare sempre le cose da una prospettiva più ampia. Lui non ha mai smesso di imparare. Per esempio, grazie a papà io ho scoperto e ho cominciato ad amare gli scrittori americani tra le due guerre, come John Steinbeck. Mi ha regalato i libri di Hemingway». 
Era raffinato anche nelle scelte musicali?
«Sì, ma lui amava il jazz, io prediligo le composizioni del Settecento. La cosa più sorprendente erano le sue conoscenze nella storia dell’arte».
Racconti.
«Enzo Bearzot era un conoscitore della pittura fiamminga, una specialità che esplorano in pochi».
Però a dividervi c’era la fede calcistica...
«Eh sì, lui un cuore granata e io interista!».