la Repubblica, 14 maggio 2021
Bob Dylan, ottant’anni da inafferrabile
Pochi anni fa, vicino Los Angeles, nel bel mezzo di una festa in cui tra musicisti e gente del cinema si mescolavano brillanti inseguitori dell’onda perfetta, un giovane surfista uscì in giardino a contemplare le luci della sera. Dopo qualche minuto notò un vecchio signore ripiegato su un cespuglio di rose. Gli chiese informazioni su quei fiori. L’uomo, avvolto nella penombra, ne illustrò brevemente le proprietà. Il ragazzo ne dedusse che faceva il giardiniere. L’uomo non lo smentì. Surfista e giardiniere rimasero a parlare cinque minuti. Poi il ragazzo rientrò nella villa della festa per ritrovarsi addosso, stranamente, gli occhi delle persone con cui era arrivato. Ehi, che gli prendeva a tutti? Il signore delle rose era strambo, va bene, ma cosa avevano da guardare così? Al ragazzo fu messo in mano un bicchiere e poi gli fu spiegato che il giardiniere con cui aveva discusso di innesti floreali rispondeva al nome di Bob Dylan.
L’aneddoto mi è stato riportato l’anno scorso a Venezia da Cate Blanchett, che in I’m Not There di Todd Haynes interpreta Dylan insieme ad altri cinque attori. Fotografare l’imprendibile. Puoi illuderti di avermi fissato nel tuo sguardo, ma ecco che non sono già più lì. Nel film di Haynes, Dylan è volta per volta un poeta, un profeta, un falsario di nome Woody Guthrie (interpretato da un ragazzo afroamericano di undici anni), un fuorilegge (Richard Gere), un cantante folk, un attore ventiduenne, un musicista rinnegato (Cate Blanchett). Nel comprendere che sei personaggi non fanno un autore (e forse nessun uomo sulla terra), Haynes ha una bella intuizione. “Contengo moltitudini”, canterà del resto Dylan qualche anno dopo citando Whitman.
Il prossimo 24 maggio Bob Dylan compirà 80 anni, e l’imprendibilità resta la garanzia della sua forza, dell’intatta bellezza della sua arte. Non sono un musicologo (tanti meglio di me saprebbero spiegarvi la magia di Al Kooper sull’hammond di Like a Rolling Stone ), non sono un biografo né uno storico (Alessandro Portelli ha dedicato di recente un libro a A Hard Rain’s A-Gonna Fall mentre Greil Marcus ha ripercorso per più di 200 pagine il 15 giugno 1965, il giorno in cui proprio Like a Rolling Stone – la canzone che cambiò tutto – fu incisa a New York nello studio A della Columbia) ma vorrei provare a spiegare in poche righe, molto umilmente, perché la musica di Dylan ha ispirato la mia vita di uomo e di scrittore.
Ho scoperto Dylan quando avevo quindici anni. All’epoca in Europa soffiava il triste vento del riflusso. Ascoltavo i Joy Division. Li amo ancora. La cupa eleganza con cui il post punk faceva il funerale al grande sogno era la lucida presa d’atto di un fallimento mentre là fuori, nel mainstream, gli anni Ottanta si gloriavano della loro pochezza. Ma poi ascoltai di seguito Bringing It All Back Home, Highway 61 Revisited, Blonde on Blonde e il mio cervello esplose. Il sogno non era affatto morto. Quella musica – incisa chissà quando nel passato – veniva dal futuro, esattamente come Cuore di Tenebra scombussolerà le vite di chi oggi è un bambino e La ricerca del tempo perduto farà esclamare a qualche giovane del 2130: “Ehi, questa roba sta avanti di un secolo!” I classici – letterari, cinematografici, musicali – non hanno tempo perché sono vivi. Ci sono dischi e libri su cui torno feticisticamente per ritrovarli identici a come li avevo lasciati, e altri che suonano semprenuovi, tanto sono mutevoli, imprendibili, spiazzanti.
Le migliori canzoni di Dylan possiedono questa dote: cambiano a ogni ascolto. Il labirinto di Visions of Johanna o Ballad of a Thin Man è diverso ogni volta che ci finisci dentro – di conseguenza, ogni volta, ti ci perdi. Idiot Wind ti sbatte in faccia un dolore sempre nuovo (eppure, quel dolore, hai l’impressione di conoscerlo da sempre). Standing in the Doorway ti fa sprofondare con lentezza dentro un vortice magnetico dentro cui continui a fare i conti con la tua solitudine. E la vitalità di Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again? E l’inquietudine (se persisti nell’inquietudine: sei vivo) di It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding)?
Ma veniamo a tempi più recenti. Quando l’anno scorso, in pieno lockdown, Dylan se ne venne fuori con Murder Most Fou l, una traccia di diciassette minuti sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, qualcuno parlò di ritrovato impegno civile. Da una parte quel brano sembrava dialogare col Don DeLillo di Libra. Ma dall’altra: attenzione quando si parla di politica, perché per Dylan (come del resto per DeLillo) politica e metafisica non sono mondi così distanti. Murder Most Foul è politico quanto il Giulio Cesare di Shakespeare, o il Macbeth, o l’ Amleto da cui non a caso (atto I, scena 5) ruba il titolo.
Questa incredibile vitalità delle canzoni di Dylan è ottenuta poche volte con la suadenza, molto più spesso attraverso la dissonanza e l’inciampo (chi inciampa, vede cose). Anche i famosi live in cui l’uomo di Duluth storpia e rende irriconoscibili le sue stesse canzoni. Che cosa sta facendo? Le sta tenendo vive, inafferrabili. Preferite la vita con la sua rotolante irriducibilità, o un supergruppo musicale che esegue ogni sera lo stesso concerto con immutata (morta) perfezione?
Le improvvisazioni di Charlie Parker (“questo pezzo lo sto suonando domani! domani!”, dice Parker in una reinterpretazione di Cortázar). La grazia posata su un fotogramma di Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij. Il mistero tra un verso e un altro di Georg Trakl, di Emily Dickinson. Dylan è uno di questi maestri, noi siamo fortunati a essere suoi contemporanei.