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 2021  maggio 14 Venerdì calendario

Un giorno a Tel Aviv

Oggi è Id Al Fitr, la festa dell’interruzione del digiuno del Ramadan, la seconda festività religiosa più importante dei musulmani, che celebra la gioia per la fine di un lungo periodo di digiuno. Domenica invece è Shavuot, la festa ebraica della mietitura in cui si celebra il dono della Torah al popolo ebraico. Sarà difficile festeggiare, temo.
Mi sono svegliata con la testa pesante e un sapore amaro in bocca. Questa notte le sirene a Tel Aviv hanno suonato all’una di notte e poi di nuovo alle due. Mi sono alzata, mezzo addormentata. Intorno a noi si sono accese le luci in tante case e i cani hanno iniziato ad abbaiare di paura. Nell’incontro con i vicini per le scale non abbiamo parlato di razzi, che comunque sono caduti (ma forse meno di ieri). Non abbiamo parlato dell’Idf che continua a bombardare Gaza. Abbiamo parlato delle immagini che tutti abbiamo visto nel pomeriggio e durante la sera. Dei pogrom di ragazzi ebrei contro arabi, di ragazzi arabi contro ebrei. Dell’orrore di ciò che sta succedendo qui, vicino a noi, tra di noi, tra arabi ed ebrei, tra israeliani di una religione e di un’altra. Dei giovani delinquenti, la feccia di entrambe le parti, usati senza scrupoli per le loro debolezze da politici che ora si chiedono come mai e perché e adesso basta e si stupiscono che la polizia non riesca a fermare l’orrore. Chi sono i genitori di quei ragazzi? Chi li ha cresciuti? Da dove nasce tutto quell’odio? Tutta questa rabbia? Abbiamo parlato con sgomento dei tentativi di linciaggio, dei saccheggi senza senso e senza ragione, del cumulo di macerie di quelli che erano un tempo il famoso ristorante di pesce di Uri Buri e il suo albergo Effendi a San Giovanni d’Acri, dove l’anno scorso avevo festeggiato il mio compleanno. Sono stati il giorno e la notte degli orrori. Credo che di questo e solo di questo si sia parlato in tutte le case mentre nel buio della notte ormai estiva si accendevano le luci e il sonno interrotto ci spingeva in modo quasi automatico a riaccendere la televisione per vedere cosa era successo e chi e dove era stato colpito.
E di nuovo abbiamo visto quei ragazzi, quelle immagini. Tutto ben documentato, come usa in tivù, per non farci perdere niente, tra una pubblicità e l’altra. Persino morire sotto un razzo mi è sembrato in quel momento un pericolo minore di quello provocato dalle guerre interne di questo Paese. Dall’anarchia. Dalla paura. Da allora preferisco tenere la radio accesa. E seguo i notiziari. Ora per ora, minuto per minuto.
Uno dei feriti del linciaggio è stato attaccato a colpi di bastone e pietre. È un insegnante che era sceso in città con altri insegnanti per vedere se tra i giovani rivoltosi ci fossero anche suoi studenti. Gli hanno praticamente spaccato la testa. Si è salvato per un pelo, dicono dall’ospedale. Era arabo o ebreo? Mi chiede un’amica. Non lo so e non mi importa, le rispondo. Era arabo. “È inaudito quello che sta succedendo” mi scrivono invece dall’Italia. “Vi invidiavamo per aver gestito così bene la campagna vaccinale. Ormai non usavate neanche più la mascherina e siete persino in possesso di una specie di passaporto sanitario. Un sogno, per noi che non ci siamo ancora lontanamente arrivati. Dietro l’angolo, invece, vi aspettava un’altra piaga”.
E che piaga. Che incubo.
Ma non abbiamo scelta. La disperazione non serve a nulla. E tanto meno il pessimismo. Dobbiamo cominciare a muoverci. Già si stanno formando i primi gruppi “misti” di israeliani che non si piegano davanti a questo orrore, in primis di insegnanti e presidi ebrei e musulmani, poi di sindaci, di capi spirituali. Per Whatsapp c’è persino chi si organizza per distribuire fiori nei punti nevralgici, negli ospedali. Nelle strade, negli incroci. Sono le 14. Ora stanno suonando di nuovo le sirene, per la prima volta di giorno, qui a Tel Aviv. Piu che un ululato questa volta mi sembra un urlo di dolore.