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 2021  maggio 14 Venerdì calendario

Tutti pazzi per il legno. Serve una borsa nazionale


«Ogni giorno riceviamo moltissime richieste, da ogni parte d’Italia. Aziende che non ci avevano mai contattato in passato, perché di solito acquistavano i semilavorati dall’estero. Questo dimostra quanto il mercato sia in affanno e alla ricerca di materiale che non c’è o costa troppo». Milena De Rossi è titolare di Mdr Legnami, azienda valtellinese che occupa 37 dipendenti e fattura circa 7 milioni di euro. De Rossi, come tutti i suoi colleghi, sta soffrendo per la scarsità di legname in arrivo dall’estero, in particolare dalla Svizzera, tradizionale fornitore della Mdr Legnami. «Non facciamo in tempo a riempire i magazzini: da un lato arrivano sempre meno tronchi, dall’altra la domanda è aumentata enormemente», spiega l’imprenditrice. L’azienda è riuscita per ora a organizzarsi per mantenere i ritmi produttivi inalterati, ma i tempi di consegna ai clienti si sono allungati da 10-15 giorni a un mese, un mese e mezzo.
La carenza di materie prima affligge da mesi tutta l’industria italiana, fortemente dipendente dall’estero per molti componenti di base per la produzione. Nel caso del legno, il paradosso è che in Italia la materia prima non mancherebbe affatto: secondo Assolegno, negli ultimi 70 anni la superficie boschiva italiana è triplicata, passando da 5,6 milioni di ettari a oltre 11 milioni e copre il 38% della superficie nazionale. Eppure, il nostro Paese importa l’80% del legname usato dall’industria per la sua trasformazione. «Un paradosso che denunciamo da anni, ma che ora diventa insostenibile, vista la penuria di materiali – spiega il presidente di Assolegno, Angelo Luigi Marchetti -. Dallo scorso autunno a oggi, il prezzo del tondame (i tronchi interi, da segare, ndr) è aumentato tra il 20 e il 30%, mentre quello dei semilavorati è addirittura raddoppiato, passando dai 400 euro al metro cubo di settembre, a 800 euro».
La soluzione, anche se richiederà del tempo, deve essere di politica industriale: «Bisogna creare un cluster nazionale per la gestione e la valorizzazione delle risorse boschive – dice Marchetti –. Il Testo Unico Forestale del 2018 ha migliorato la situazione, regolando e uniformando la gestione dei boschi. Ma troppo poco si è fatto sul fronte industriale, per riorganizzare una filiera che, nel tempo, è andata perduta». Se anche si aumentasse la possibilità di prelievo di legname, oggi non ci sarebbero infatti segherie e aziende a sufficienza (o sufficientemente grandi) per garantire i volumi richiesti dal mercato, né le competenze necessarie.
Occorre ricostruire tutto: una sorta di reshoring. «In cinque anni potremmo vedere risultati significativi – osserva il presidente –. E se dimezzassimo le importazioni, riporteremmo in Italia circa 600 milioni di euro l’anno per acquistare alberi italiani e quindi creare economie di scala sul territorio, creando migliaia di posti di lavoro, con vantaggi economici, sociali e ambientali in aree spesso marginali o disagiate».
Perché un bosco curato e gestito è un bosco certificato e sicuro, che protegge il terreno dai rischi idrogeologici e garantisce la riforestazione.
I presupposti per ricostruire la filiera ci sono. Poche settimane l’Unione europea ha riconosciuto al legno italiano la stessa classe di resistenza, per uso nell’edilizia, degli altri legni europei e questo si traduce in un valore maggiore per la nostra materia prima. Assolegno sta inoltre lavorando a una piattaforma digitale di incontro della domanda e dell’offerta di legname, una sorta di Borsa nazionale del legno, che dovrebbe essere operativa entro l’anno e potrebbe aiutare a superare la storica frammentazione del patrimonio boschivo in Italia. L’altro passo è coinvolgere il governo: «Occorrono strumenti, come il credito di imposta, per sostenere la crescita delle piccole segherie», osserva Marchetti.
Altro elemento chiave è investire sulle competenze, in larga parte perdute. Lo conferma Andrea Chinucci, amministratore delegato di Chinucci Legnami, azienda del Viterbese specializzata nella coltivazione e lavorazione del castagno, che fattura circa 3,5 milioni di euro e ha 30 dipendenti. Quella del castagno è una filiera “modello”, a cui sempre più aziende si stanno rivolgendo per acquistare legname, vista la penuria sui tradizionali canali di approvvigionamento. «Siamo rimasti in pochi a lavorare il castagno – spiega Chinucci –. Noi siamo tra le segherie più grandi, ma facciamo fatica a stare dietro agli ordini. Abbiamo assunto due nuovi operai e dovremo assumerne altri, per aumentare i turni. Ma trovare personale formato è persino più difficile che trovare la materia prima».
Anche Artena Legnami è una segheria specializzata nella lavorazione del castagno e vive le stesse problematiche: «La nostra fortuna è aver investito in tecnologie per sviluppare la capacità produttiva – spiega Guglielmo Lanna, terza generazione a capo dell’azienda, che fattura 3,5 milioni di euro e occupa 35 dipendenti –. Prima di questa crisi lavoravamo per il 90% castagno originario del nostro territorio, i Castelli Romani, e per il resto prodotto lamellare importato dall’Austria. Ora il lamellare ha prezzi stellari e non si trova, perciò lavoriamo al 100% con il castagno».