«All’aeroporto mi hanno annunciato che mi avrebbero mandato in prigione», racconta Marta. «Non me ne capacitavo. Non avevo fatto nulla di male. E invece: filo spinato, sbarre alle finestre, cancelli enormi blindati. È stato uno shock. Sono scoppiata a piangere. E loro mi dicevano: "Tranquilla, qui sei al sicuro". Ma come posso essere al sicuro in un posto del genere?».
Lo scorso gennaio, a Colnbrook, c’è stato un focolaio di Covid, mentre il Guardian nel 2015 ha raccontato come in questo carcere «non ci sono finestre né aria, qui tutti soffrono di disturbi mentali». Il cugino di Marta, Giuseppe Pichierri, medico, microbiologo della sanità pubblica inglese e residente a Londra da quasi 15 anni, è esterrefatto: «Siamo furiosi e indignati, inclusi mia moglie e mio suocero inglesi, che non si capacitano di quanto stia accadendo al loro Paese».
Giuseppe aveva consegnato a Marta una lettera a sua firma per farla entrare nel Regno Unito come ragazza alla pari. Ma per le autorità di frontiera non era sufficiente: serviva anche un visto lavorativo. Pichierri ribatte: «Marta non lo aveva perché non c’è ancora una procedura regolare per ragazze alla pari, nessuno sa quale visto serva, nemmeno la ministra dell’Interno Priti Patel».
Una figlia di rifugiati ma "falca" sull’immigrazione: «Basta corsie preferenziali agli europei», ha ripetuto nei mesi scorsi.
«Sono partita la mattina del 17 aprile da Brindisi, ho fatto scalo a Milano, sono arrivata a Londra nel pomeriggio», racconta Marta.
E poi cos’è successo?
«Era il mio primo viaggio internazionale. Hanno visto i documenti, credevo fossero giusti. Poi, però, mi hanno sequestrato la valigia, perquisito, interrogato, chiusa in una stanzetta in aeroporto. Fino alle 4 di mattina».
Quando l’hanno trasferita nel centro di espulsione?
«Sì. Mi hanno avvertito: "È una prigione". Lo era, difatti. Sono scoppiata a piangere».
Non poteva telefonare a Giuseppe?
«No, mi hanno sequestrato il cellulare. Temevano che avessi potuto girare video o scattare foto. I miei familiari non sapevano che fine avessi fatto. Poi mi hanno fornito un vecchio telefono senza fotocamera. Ma non aveva credito e per la ricarica accettavano solo sterline. Allora ho chiamato mio cugino dai telefoni pubblici della prigione».
Durante la detenzione le hanno sequestrato tutto?
«Sì. Valigia, portafogli, soldi, telefono. Le autorità lì fanno di tutto per rassicurarti. Ma ogni volta che fai un passo, sei seguito da una guardia. Ho perso il conto di quante perquisizioni mi sono state fatte».
Anche dopo esser entrata nel centro?
«Sì, da capo a piedi. E mi hanno preso impronte digitali e foto».
Com’era la stanza dove ha passato la notte?
«Sbarre alla finestra, c’erano tre lettini ma ero l’unica ospite. Due scrivanie e una porta blindata con una finestrina tonda».
Quanto tempo è rimasta nel centro?
«Circa 12 ore, non ho chiuso occhio. Nella sfortuna sono stata fortunata, perché mi hanno trovato un volo per Milano il giorno dopo. Mi hanno scortata fino al mio posto in aereo. Solo all’imbarco mi hanno riconsegnato effetti personali e smartphone».
Chi altro ha visto a Colnbrook?
«C’era un’altra giovane italiana, toscana, non ricordo il suo nome.
Aveva 24 anni come me ed era lì da addirittura cinque giorni.
Neanche lei sapeva perché».
In che stato si trovava questa ragazza?
«Era stata da sola per quattro giorni. Mi ha detto che all’inizio stava impazzendo, "un incubo completo". Anche a lei avevano sequestrato il cellulare e non ricordava i numeri di telefono dei familiari. Ha dovuto aspettare che la trovassero loro. Non ho saputo più nulla di lei».