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 2021  maggio 13 Giovedì calendario

Intervista a Giorgio Diritti

Dopo la premiazione Giorgio Diritti ha dormito pochissimo, bersagliato di telefonate e messaggi di congratulazioni. «Ma la festa con tutta la troupe la farò più avanti, quando torneremo zona bianca», spiega il trionfatore della 66ma edizione del David di Donatello. Il suo Volevo nascondermi, dedicato al tormentato pittore Antonio Ligabue, ha vinto sette statuette: miglior film, regia, attore protagonista (il travolgente Elio Germano), scenografia, suono, fotografia, acconciature. E da domani, annuncia Paolo Del Brocco ad di RaiCinema coproduttrice con Palomar, tornerà in sala. «È come vincere un David supplementare», sorride Diritti.
Bolognese, 61 anni e un figlio musicista di 30, il regista, sceneggiatore e montatore ha girato solo quattro film nell’ultimo quindicennio ma è diventato un pilastro del cinema d’autore italiano. Senza mai scegliere la strada facile: Il vento fa il suo giro era ambientato tra le montagne e parlato in lingua occitana, L’uomo che verrà rievocava la strage di Marzabotto, Un giorno devi andare aveva per protagonisti gli indios dell’Amazzonia. Il prossimo film, Lubo, parlerà di uno zingaro jenisch a cui, negli Anni ’40, lo stato svizzero portò via i figli per sradicare il nomadismo.
Si aspettava di sbancare il David?
«Uno spera sempre di vincere, ma c’erano dei candidati fortissimi... Sono felice perché è stata premiata la forza del lavoro collettivo che è stata dietro il film».
Che cosa può rappresentare Ligabue per gli spettatori reduci dalla pandemia?
«Una boccata di speranza, un simbolo di riscatto. Partito da un’emarginazione totale, brutto fisicamente, emigrato, riuscì ad affermarsi. Chi ha sofferto può vedere la luce».
Dove nasce la sua predilezione per gli ultimi?
«Dalla mia formazione. I miei genitori sono profughi istriani trapiantati a Bologna. Ho cambiato diverse città al seguito di mio padre bancario, a Biella sono cresciuto con i figli dei terroni. E ho frequentato i centri sociali in cui l’attenzione verso l’altro, un valore d’ispirazione cristiana, era molto forte».
E com’è nato il suo amore per il cinema?
«Da piccolo salivo sulla sedia e recitavo. Ma a vent’anni facevo l’assistente fonico. Nel clima effervescente della Bologna degli Anni ’80 ho lavorato anche con Lucio Dalla, artista geniale, libero e uomo squisito. Fu proprio lui a indirizzarmi verso il cinema».
In che modo?
«Conoscendo il mio amore per il teatro, agevolò il mio ingaggio come aiuto di Pupi Avati che girava Noi tre. L’ultimo giorno delle riprese piansi e capii che era la mia strada. Dopo Avati ho avuto un altro incontro decisivo: Ermanno Olmi che mi ha insegnato a raccontare solo le storie necessarie, in cui credo davvero».
Ed è stato sempre capito?
«Macché. Quando cercavo i soldi per Il vento fa il suo giro mi dicevano che ero pazzo. Il film l’ho prodotto io».
E quando ha vinto premi in mezzo mondo ha rivisto quei produttori?
«Sì, e mi hanno chiesto scusa per non avermi capito».
Il cinema d’autore è un animale in via di estinzione?
«No, lo spazio per film diversi dall’intrattenimento è addirittura destinato ad aumentare. I fast food non hanno ucciso l’alta cucina».
Avrebbe accettato di mettere il suo film on line?
«Per fortuna non mi sono trovato di fronte a questo dilemma... Spero che le sale resistano. Lo streaming risulterà utile per chi non può andare al cinema».
Sarà Elio Germano a interpretare Lubo?
«Ancora non ho pensato al cast. Il film, che nasce dal romanzo Il seminatore di Mario Cavatore (Einaudi), mi permetterà di parlare di un fatto che pochi conoscono: sull’eugenetica e le atroci teorie della purezza della razza Hitler fu suggestionato dagli ideologi svizzeri».
Cosa pensa dell’attuale cinema italiano?
«Mi sembra percorso da un’energia buona. Amo i D’Innocenzo, Matteo Rovere, Mario Piredda, Carlo Hinterman».
Ha un sogno?
«Spero di continuare a fare il cinema in cui credo con le persone giuste al mio fianco. Solo così lavorare è un piacere».