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 2021  maggio 12 Mercoledì calendario

Intervista a Magic Johnson

«Lascia che ti racconti un’ultima cosa...». Magic Johnson ha da un pezzo sforato i venti minuti concordati, ma continua a raccontare quanto ami l’Italia, dove tornerà in vacanza in estate. E ha ancora voglia di un aneddoto: «Un anno durante le vacanze mi portarono a Venezia, in una vetreria di Murano. Il mastro vetraio sapeva del mio arrivo, e mi omaggiò con una scultura in vetro a mia immagine e somiglianza. Rimasi estasiato. Mi disse che non avevano mai fatto niente del genere, nemmeno per Kobe Bryant che era stato lì l’anno precedente. Gli dissi che non mi importava quanto ci avrebbe messo, ma che avrebbe dovuto riprodurmi ogni singolo giocatore con cui avevo giocato nei Lakers. Ci mise un anno: ora quelle sculture sono nella mia sala trofei e incantano ogni persona che entra in casa mia. Più di tutti i miei trofei». Poi si scioglie in una risata fragorosa, in uno di quei suoi sorrisi contagiosi che hanno contribuito a renderlo leggenda, assieme a quella sua visione di gioco fuori dal comune e a quel misto di straordinario talento e determinazione con cui ha incantato per un decennio intero. E con cui ancora adesso, nonostante abbia smesso praticamente da 30 anni, continua ad incantare: «Ci sono tanti ragazzi che non mi hanno mai visto dal vivo, ma che mi fermano e mi chiedono come ho fatto a fare quella giocata che hanno visto su YouTube, o che mi hanno usato a Nba2k. Penso sia la forma più alta di rispetto».
Magic, quando si è innamorato dello sport?
«Da bambino. Guardavo Bill Russell e Oscar Robertson e sognavo di essere come loro. Ogni domenica vedevo le partite in tv con mio padre, poi andavo al campetto e cercavo di rifare quello che avevo appena visto. Volevo giocare in Nba da quando avevo 8-9 anni».
Quando ci è arrivato cosa si aspettava?
«Volevo dimostrare che appartenevo a quel mondo. Avevo vinto in Ncaa, ma i giocatori Nba mi dicevano che dovevo dimostrare quanto valevo. E poi volevo provare di poter giocare da playmaker nonostante fossi alto 206 centimetri».
Quando capì di poterlo fare?
«Quando abbiamo vinto il titolo al mio primo anno, nel 1980. Vincere è sempre stata la priorità. In quelle Finals Kareem Abdul-Jabbar, la nostra stella, si infortunò: vincemmo gara-6 in trasferta a Philadelphia, io feci 42 punti, 15 rimbalzi e 7 assist. Mostrai all’intera Nba di che pasta ero fatto, che volevo vincere. E quel successo creò lo Showtime».
Che posto occupano nella storia i suoi Lakers degli Anni Ottanta?
«Sono una delle squadre più grandi di sempre, se non la più grande. Abbiamo vinto 5 titoli, giocato 9 Finals in 12 anni. Avevamo tanto talento, un grande coach come Pat Riley. Eravamo dominanti ma giocavamo bene insieme. I tifosi adoravano il nostro stile di gioco: penso sia uno dei motivi per cui abbiamo avuto successo».
L’altra squadra di quel decennio erano i Boston Celtics di Larry Bird.
«Rispettavo tantissimo Larry e i suoi Celtics. Sapevo che ci avrebbero spinto alla grandezza e che noi avremmo fatto lo stesso con loro. Loro ci odiavano, noi li odiavamo, i tifosi non si piacevano... C’erano due squadre che si sfidavano e facevano di tutto per battersi, ma allo stesso tempo giocavano ad alto livello. Alla fine di ogni serie rimanevi estasiato. In ogni parte del mondo tutti volevano vedere Larry e Magic, i Celtics contro i Lakers». 
Il traguardo di cui va più orgoglioso?
«Il Dream Team prima di tutto. Poi i 5 anelli Nba. E sono orgoglioso di come io e Larry abbiamo cambiato l’Nba e il gioco del basket: abbiamo mostrato che fare canestro non era l’unico modo di dominare, che potevi essere decisivo anche con i passaggi. Vado orgoglioso del fatto di aver vinto, di essere ricordato come un vincente».
Il Dream Team 1992 cosa è stato per lei?
«Quell’esperienza ha cambiato la mia vita. E ha cambiato il basket. È stata una piattaforma incredibile: per noi, per i giocatori che abbiamo affrontato e per tutti quelli che sono stati ispirati da quella squadra, la migliore mai assemblata». 
Cosa ricorda di quella esperienza?
«Che volevo assolutamente la medaglia d’oro, non avendola mai vinta. Ho avuto la chance di giocare coi due giocatori che rispettavo di più in assoluto, Larry Bird e Michael Jordan. Abbiamo passato dei mesi insieme e questo ha reso la nostra amicizia più forte. La cosa più incredibile erano le reazioni dei nostri avversari, anche durante le gare: ricordo uno che pianse di felicità nel bel mezzo della partita per aver subito fallo da Michael. E altri due che vennero da me tutti eccitati, dicendomi che il motivo per cui giocavano play ero io, che cercavano di imitarmi. È stato incredibile».
Che meriti si da per il titolo dei Lakers 2020, essendone stato presidente per i due anni precedenti?
«Sono orgoglioso di quello che hanno fatto in un anno così particolare, con la morte di Kobe, la pandemia, i playoff nella bolla. E sono orgoglioso di aver avuto una piccola, piccolissima parte nel loro successo. Non credo superi l’1%, ma sono orgoglioso che quella percentuale includa aver portato ai Lakers LeBron James».
Possono ripetersi?
«Sì, se sono sani. Devono recuperare LeBron, ma avranno comunque tanti ostacoli. A Ovest i Clippers saranno il più grande. Ma alle Finals sarà dura battere Brooklyn...».
Chi è Magic Johnson oggi?
«Un imprenditore, carriera che da sempre immaginavo dopo il basket. Il mio primo mentore è stato Jerry Buss, lo storico proprietario dei Lakers. Poi Peter Gruber, oggi uno degli azionisti di riferimento dei Warriors. Mi hanno aiutato a crescere in questo campo, mi hanno insegnato. Ma la passione per lo sport mi è rimasta dentro: ho quote nei Los Angeles Dodgers di Mlb, nelle Sparks di Wnba, nei L.A. FC, una delle squadre più di successo nella Mls. Ma ho anche tanti altri investimenti. E cerco di portare cambiamento». 
Come?
«Investo nella provincia americana, dando lavoro alla gente dei quartieri più poveri. Con la mia fondazione abbiamo assegnato oltre 10.000 borse di studio ai ragazzi dei quartieri poveri che hanno i voti per andare al college ma non i mezzi. Credo in questo: poi fare soldi, ma essere comunque motore del cambiamento aiutando le comunità come quella in cui sono cresciuto».
Cos’è l’Italia per lei?
«Il miglior posto del mondo. Adoro la gente, il cibo italiano è in assoluto il mio preferito. Vengo in vacanza lì da 30 anni e continuerò a tornarci sempre: adoro i valori familiari che hanno gli italiani, il fatto che sanno prendersi cura di te come nessuno al mondo, che vogliono che la tua esperienza lì sia la migliore della tua vita. Ora mi sento a casa lì da voi, conosco tutti. La gente qui in America mi chiede spesso perché continuo a tornarci: rispondo loro che se fossero stati in Italia, anche loro continuerebbero ad andarci».