la Repubblica, 12 maggio 2021
I nuovi dilemmi tecnici sul Ponte sullo Stretto
Più che all’ingegneria, il Ponte di Messina appartiene ormai alla mitologia, anche se per qualcuno è l’ottava meraviglia e per qualcun altro un mostro spaventoso. L’unica cosa certa è che è passato mezzo secolo dal giorno in cui fu deciso, per legge, di costruirlo, ma finora nessuno l’ha mai visto. E ora tocca al Parlamento scrivere il prossimo capitolo di questa storia senza fine, esaminando il rapporto di 158 pagine preparato dal "gruppo di lavoro" incaricato dalla ministra De Micheli di valutare i pro e i contro non solo del ponte ma anche di quel tunnel sottomarino proposto da un ferroviere in pensione che Giuseppe Conte definì «un miracolo di ingegneria».
Ebbene, il parere finale è che bisogna fare il ponte. Anzi no: prima bisogna stabilire se è meglio farlo a una oppure a tre campate. Spendendo altri 50 milioni per indagini, analisi e studi. Tornando dunque, dopo più di trent’anni, alla casella di partenza.
Così adesso il Parlamento dovrà rispondere alla domanda decisiva: ne vale la pena?
Oppure è meglio rimettere sul tavolo quel progetto prima approvato, poi finanziato e infine bloccato, e decidere subito, una volta per tutte, se farlo oppure no?
La linea che divide i favorevoli dai contrari attraversa trasversalmente non solo la maggioranza, ma anche il Pd e il Movimento 5 Stelle, e dunque l’esito della partita non è affatto scontato. Il governo Conte aveva passato la patata bollente al "gruppo di lavoro", il quale però alla domanda "ponte o tunnel?"
ha risposto con un dilemma: "a una o a tre campate?".
Sul fatto che sia utile collegare le due sponde dello Stretto non c’è il minimo dubbio, avverte il rapporto, considerato che ogni anno 10 milioni di passeggeri, un milione e 800 mila auto e 800 mila camion per andare da Scilla a Cariddi con il traghetto impiegano un tempo equivalente a raggiungere una città distante 100 chilometri.
L’idea del tunnel sottomarino viene drasticamente scartata, perché scavarlo «in un’area altamente sismica con numerose faglie sismogenetiche attive» rende «incerta la fattibilità dell’opera».
La soluzione migliore resta dunque il ponte. Ma non necessariamente a campata unica, come quello che la società Stretto di Messina aveva cominciato a costruire dopo sette anni di studi, indagini, progetti e collaudi. Secondo i 16 membri del comitato quel progetto ha i suoi punti di forza, compresa «una ridotta sensibilità alla sismicità dell’area», e naturalmente l’immediata disponibilità del progetto definitivo. Però non è mai stato realizzato un ponte a campata unica così lungo, e dunque - suggeriscono - forse sarebbe meglio un ponte a tre campate, con due piloni affondati nello Stretto.
Sembra l’uovo di Colombo.
Peccato che lo stesso rapporto avverta che prima di sapere se si può fare o no bisognerebbe «condurre indagini geofisiche, geologiche, geotecniche e fluidodinamiche», ma anche «analizzare gli effetti delle correnti marine, la presenza di faglie, frane sottomarine e tutti gli accumuli di sedimenti sommersi che possono subire deformazioni, spostamenti, rottura o liquefazione», e infine tener conto del fatto che al centro dello Stretto un terremoto di magnitudo superiore a 6,5 gradi provocherebbe spostamenti «superiori al metro», con imprevedibili effetti sui piloni e dunque sul ponte.
Sono gli stessi motivi per i quali l’idea di poggiare il ponte sui piloni in mare fu bocciata nel 1990 dai due esperti di fama mondiale - l’americano Robert Whitman e l’olandese Abraham Van Weele - incaricati di esaminare proprio questa soluzione: che loro esclusero categoricamente, per le forti correnti che avrebbero reso arduo l’affondamento dei piloni e per la notevole esposizione al rischio sismico.
Lo strano entusiasmo di chi fino a ieri si opponeva al ponte come a un ecomostro legittima il dubbio che quella del ponte a tre campate sia solo un’idea per azzerare tutto.
Spendendo altri 50 milioni, oltre ai 350 spesi per il progetto già pronto, per temporeggiare ancora. Magari per scoprire tra cinque anni che è meglio il progetto chiuso in un cassetto da dieci anni.
Davvero: ne vale la pena?