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 2021  maggio 12 Mercoledì calendario

Il rapper Rkomi si racconta

Primo in classifica tra gli album, primo tra i singoli, «e primo anche nei vinili: ci tengo - dice Rkomi - sono molto affezionato a quel formato, ho appena comprato un giradischi stupendo, per inaugurarlo ho preso Paranoid dei Black Sabbath». Rkomi, che di nome fa Mirko Manuele Martorana, è di Milano: ha compiuto da poco 27 anni. Lo si considera un rapper in omaggio agli esordi e a un’appartenenza generazionale, i cantautori della sua età vengono più o meno tutti da lì, dal linguaggio più accessibile che hanno incontrato nel momento giusto della vita: «Da ragazzino per me c’era solo l’hip hop. Lo adoro ancora, ma non lo ascolto più. È la musica che ci ha cresciuti, è il motivo per cui ci sono tanti rapper in giro, alcuni evolvono altri no, o non sanno fare altro o amano molto quel genere. La differenza tra amare davvero un modo di esprimersi o non essere capaci di superarlo in fondo è molto sottile».
Il suo nuovo album, quello primo in classifica, si chiama Taxi Driver per due ragioni. Perché è un disco di duetti e «io faccio un po’ il tassista, porto i miei ospiti a casa loro o, meglio, in luoghi non troppo conosciuti da entrambi». E poi per il film di Martin Scorsese: «Mi rivedo nel protagonista, Travis Bickle. Il mio Vietnam è Calvairate, lo dico con rispetto, non perché il quartiere popolare dove sono cresciuto fosse così terribile, ma per le scelte che ho fatto. Mi riconosco nella sua alienazione. In fondo lui viene fuori come una persona buona, è il caos che ha in testa che lo fa sbagliare».
Rkomi/Mirko ha abbandonato la scuola prima di diplomarsi, anche se non era certo l’ultimo della classe: «Andavo abbastanza bene, non studiavo molto ma ero attento in classe, avevo tutti 6 o 7, anche 8 o 9 se la materia mi appassionava». Si è messo a lavorare, perlopiù come cameriere, ma il tarlo dell’hip hop lo tormentava: «Prima o poi lo faccio, mi dicevo, quando ho 21 anni lo faccio. Conoscevo quel mondo perché c’era dentro mio cugino, mi piaceva scrivere ma ero timido, soprattutto mi piaceva stare lì. A 18 anni sono andato a vivere da solo, a 22 quasi per gioco faccio un pezzo e un video che hanno un bel riscontro: lavoro ancora dieci ore al giorno al ristorante ma inizio ad avere un pubblico. Pian piano, facendo, sbagliando, calcando palchi, spesso bruciando le tappe, riesco a conoscermi meglio. Da un anno e mezzo sono più sereno, sto mettendo a posto i pezzi della mia vita e del mio carattere. Ho anche iniziato un corso di pianoforte».
Come dice di sé Jovanotti, che ha duettato con lui e l’ha avuto ospite al Jova Beach Party, è uno che le cose le ha imparate facendole. Il suo primo EP si intitolava Dasein Sollen: «Da ragazzo leggevo poco, sono cresciuto in una famiglia magnifica, composta da me, mia madre e un fratello maggiore, che mi ha trasmesso tanti valori ma ha lasciato la cultura un po’ da parte. Quando ho scelto quel titolo non è che improvvisamente mi sono messo a studiare Heidegger. Però sapevo cosa voleva dire e sapevo che mi rappresentava. Era ciò che in quel momento volevo trasmettere, la voglia di esserci, in senso spirituale, non di diventare famoso. Con il tempo ho capito che la cultura è fondamentale per diventare un uomo vero, non bastano le esperienze, bisogna lavorarci. La mia ex ragazza mi ha fatto conoscere e amare la poesia, ora mi sono appassionato al cinema più rètro, da Godard a Scorsese, anche Antonioni, tra quelli di adesso Gaspard Noel, Jodorowski, che conoscevo solo come scrittore. Il bianco e nero non mi spaventa più, Dostoevskij neppure, tutto ciò che è complesso mi affascina».
Taxi Driver è una tappa del percorso: «È un disco tutto suonato, i duetti sono tutti veri, tranne uno in remoto perché non siamo riusciti a organizzare l’incontro. Nasce dal mio periodo pop, c’è dentro John Mayer e i Beatles, mentre ora sono entrato in una fase rock, anche un po’ grunge, c’è un pezzo nel disco che mi è stato ispirato da Yellow Ledbetter dei Pearl Jam, se uno ci fa caso ha la stessa struttura». Ora pensa a portarlo dal vivo, «se sarà possibile con otto o nove musicisti» e a riprendere i progetti messi in standby per la pandemia: «A giugno riapriamo la palestra a Calvairate dove facciamo Muang Thai, cioè boxe thailandese, una disciplina che mi ha cambiato la vita, e poi anche yoga, ju-jitsu per i bambini, dove c’è pure una libreria, le Playstation, un giorno anche una sauna. È uno spazio che nel mio quartiere non c’è e che avrei sempre desiderato. Noi siamo cresciuti nei parchetti e sui motorini, oggi i ragazzini stanno davanti alla Play tutto il giorno. Se vengono da noi per giocare alla Play, lo fanno con altri. Abbiamo 40 iscritti, vorremmo crescere e far pagare in base al reddito. Mi hanno detto che è da rossi, da comunisti, ma non importa, per noi è ok».