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 2021  maggio 11 Martedì calendario

Alberto Mantovani e l’alpinismo. Intervista

Alberto Mantovani ha 73 anni e il fisico dei montanari nati in città. Lo portano come l’abito della festa. Il corpo scarnificato, i femori allungati, la faccia scavata dal sole e dal vento, la parola schietta. È uno dei più importanti medici-scienziati italiani, oncologo e immunologo, direttore scientifico dell’istituto Humanitas di Milano. Qui racconta la sua vita parallela.
«Il mio incontro con la montagna è avvenuto da adulto. Merito di mia moglie. Ho conosciuto Nicla a 17 anni, quando andavamo al liceo. La sua famiglia frequentava la Valle d’Aosta, so prattutto Champoluc, in Val D’Ayas. Ho cominciato con lei.
La mia prima vera ascensione è stata al Castore, un classico, il primo quattromila. E sul Castore mi piacerebbe concludere a 80 anni la mia avventura di alpinista».
Si è mai domandato che cosa ci spinge verso l’alto?
«Un innamoramento. Che si può razionalizzare con i panorami mozzafiato, i ghiacciai, il senso di una sfida con noi stessi».
Con quale bagaglio di sentimenti si affronta una scalata?
«Io sono un alpinista modesto: le dico umiltà e ansia. E responsabilità tutte le volte che sono stato in cordata con i miei figli ed ero io il primo, come l’anno scorso all’Aiguille du Midi sul Bianco. E il dubbio spaventoso: “Sarò ancora capace?”, quando mi è capitato di fermarmi per un periodo più lungo del solito. Trovo un’analogia con i sentimenti con cui ci si affaccia alla ricerca scientifica: da sempre mi sono occupato di immunità e tumori, e di fronte a un progetto nuovo, a dati inediti, mi sento come ai piedi di una montagna. Il Covid-19 ha messo tutti noi scienziati davanti a una vetta del tutto sconosciuta, con urgenza e senza guide».
Quali sono stati i suoi alpinisti di riferimento?
«Walter Bonatti, per quello che ha rappresentato per il Cervino. Io sono stato sotto la via Nord del Cervino d’inverno, ma solo sotto, facendo la Chamonix-Zermatt. Per Bonatti che l’ha vissuta da protagonista ho la massima ammirazione. Un altro mito dell’alpinismo classico è Riccardo Cassin, operaio metalmeccanico che decide di fare la Nord delle Grandes Jorasses nel massiccio del Bianco — che io, di nuovo, d’inverno ho guardato da sotto — dopo averla vista solo su una cartolina. Il suo è un alpinismo che ha dell’incredibile: si fabbrica gli attrezzi da solo, poi da operaio diventa imprenditore e avvia un’azienda che produce attrezzi da montagna come impegno civile. Io ho ancora i suoi vecchi ramponi».
Con chi si accompagna abitualmente, in quali mani si mette?
«Il mio compagno è Giulio Maggioni, amico e guida che fa elisoccorso e soccorso alpino. Il suo lavoro è aiutare, spesso in condizioni al di là dei limiti, chi si trova in difficoltà. Questo è il senso, il piacere di fare squadra. Lo stesso senso e piacere di fare squadra, di lavorare tutti in un’unica direzione, che si prova in medicina, dove l’obiettivo è sempre la cura del paziente, al di là della propria professione: medico, infermiere, tecnico, ricercatore. In cordata Giulio è sempre il primo, è il profeta. In questo ultimo anno, nella scalata al Covid-19, quando mi incontravo con i medici di Humanitas per parlare di cure, erano loro le mie guide, i primi della cordata che avevano la responsabilità di scegliere la via giusta. Quando si parla di ricerca di laboratorio, invece, di solito il primo sono io».
Perché ha deciso di fare il medico?
«Ho finito il liceo classico convinto di fare fisica, ma dopo un’esperienza di volontariato in Inghilterra in un ospedale psichiatrico ho cambiato idea, dando un grande dolore al mio insegnante. La passione per la fisica di certo mi ha aiutato a ricercare approcci quantitativi nella ricerca scientifica. Quindi, riprendendo la metafora della montagna, anche se ho cambiato via di scalata, ho comunque portato con me una parte della prima via».
Come traduce in laboratorio il codice della montagna?
«In montagna non ci si accontenta mai. Il nome del nostro gruppo di amici è “Oltrelaverticale”, credo renda bene l’idea che non c’è fine alle sfide. In montagna, come in medicina e nella ricerca biomedica, c’è sempre un “oltre”: la presa in cura delle persone, la formazione delle nuove generazioni, la condivisione delle scoperte con i paesi in via di sviluppo, quello che possiamo fare per correre l’ultimo miglio. Le verticali sono tante».
A che cosa pensa, invece, quando supera il confine dei 2500 metri?
«La montagna è onesta, lassù non ci sono trucchi. L’ho sempre pensato, ancora di più adesso che faccio più fatica perché sono stato fermo a lungo. Tutto dipende da quanto ti sei allenato — e io dovrei farlo molto di più — dalla capacità di soffrire, dall’attrezzatura, dalla competenza, nel mio caso molto modesta. La montagna è umile».
Mi racconti un rimpianto.
«Per festeggiare i miei 70 anni avevo deciso di fare il Cervino con Giulio. Quando siamo partiti dal rifugio Hornli nevicava, siamo stati i primi e soli ad uscire ed era già tardi dato il mio passo lento. Vicini alla vetta, a 200 metri, ho deciso di tornare indietro. Avremmo dovuto dormire al bivacco Solvay dove i cellulari non hanno rete, non avrei potuto avvisare casa. Mi sono arreso per motivi di responsabilità verso la mia famiglia. Quei 200 metri costituiscono un grande rimpianto, ma ho scelto di non continuare con convinzione. Succede anche in medicina. Davanti a dati che non dicono quello che ci saremmo aspettati, bisogna ammettere di avere sbagliato. Lo stesso di fronte al sottile confine tra desiderio di cura e accanimento terapeutico o alle modificazioni genetiche dell’embrione umano. Ci sono limiti da rispettare».
Si è mai trovato in una situazione di reale pericolo?
«Sempre. Anche quando faccio cose semplici, magari su cime che conosco bene. In questo c’è, di nuovo, un parallelo con la ricerca biomedica. Ho sempre avuto l’ambizione di fare ricerca non “di rifinitura”, ma “ad alto rischio”, ossia che esplora elementi e ambiti nuovi. C’è stato un tempo in cui con il mio team sono “andato a pesca di geni”. Il rischio di non trovare nulla era alto. Invece abbiamo fatto scoperte che tutti giudicano importanti. La pentrassina PTX3, giusto per fare un esempio. In ricerca così come in montagna possiamo prenderci le nostre responsabilità e correre rischi ponderati, meditati. In montagna non si deve essere incoscienti ma consapevoli del pericolo, quindi ci si deve legare per mettersi in sicurezza. Nella ricerca il rischio da correre è affrontare vie nuove, con coraggio per il bene dei pazienti, e con responsabilità, ossia con la consapevolezza che la strada può essere molto lunga, mai creare illusioni. Per aprire la via dell’immunoterapia contro il cancro ci sono voluti quasi 90 anni, e anche la via nuova dei vaccini mRNA contro il Covid ha 20 anni di ricerca alle spalle».
Quanto è spietato il tempo?
«Come la pistola più veloce del West. L’avanzare dell’età ti rende consapevole, durante lo sforzo fisico, di non avere più vita necessaria a migliorarti. Un giorno dovrò rassegnarmi a portarla solo dentro di me».
In che modo?
«In montagna non sono il “professor Mantovani”, sono Alberto. In laboratorio un tempo avevamo una regola: eravamo tutti uguali e ci davamo del tu. Adesso che sono vecchio faccio molta fatica a farmi dare del tu, e non solo dai giovani, anche se lo chiedo. In montagna invece tutti ci si saluta, si cede il passo, ci si aiuta: ci sono giovani che mi lasciano indietro e sono gli stessi che mi aspettano per chiedere ad “Alberto” di vaccini, di immunoterapia, di Covid».
Lei ha quattro figli e otto nipoti. La seguono?
«Sì, nella misura in cui per loro è possibile. Filippo, il nipote più grande, mi ha appena chiesto di portarlo con me su una cima questa estate. La sua sembra essere una passione autentica che mi riempie d’orgoglio».
C’è un simbolo letterario a cui si richiama?
«Amo molto Primo Levi, appassionato di alpinismo come lo era Massimo Mila. Rappresenta la fusione delle “due culture”: un chimico, salvato dal sapere di questa disciplina, che diventa scrittore, e nella sua scrittura emergono il rigore e l’asciuttezza essenziale della scienza. Fra i suoi libri amo particolarmente La chiave a stell a: un inno al “saper fare”, ai tecnici. I miei tecnici di laboratorio sono straordinari per competenza e passione, fra i migliori al mondo, eredi delle botteghe di Stradivari e Guarneri del Gesù».
Qual è la montagna del cuore?
«Ci sono montagne che sembrano molto umili d’estate, ma in inverno diventano tanto straordinarie da poter essere scambiate per l’Himalaya. Le Orobie valtellinesi ne sono un esempio. Ma il mio cuore sta in Val d’Aosta, sul massiccio del Rosa, ho fatto tutte le vie del Rosa, perché lì si incrociano nevi, ghiacciaio e roccia. Sul versante della ricerca, invece, la mia montagna ideale è l’immunologia per la cura del cancro. Un settore in cui non ho esitato a nuotare controcorrente e in cui, oggi sto assistendo all’avverarsi di un sogno: sconfiggere i tumori con le armi del sistema immunitario».