il Giornale, 11 maggio 2021
Un racconto di Mary Robison
Un lieve brusio industriale e, oltre la spiaggia, un cigolare di catene di altalene e lo stridio di quelle giostrine da giardino che ho sempre chiamato girotondi.
C’era un faro, più che altro un’attrazione da parco.
Era una giornata pallida.
Soffiava una brezza infusa d’autunno.
La stagione dei bagni era quasi finita.
Sulla panchina accanto, all’ombra della lunga tettoia, un uomo a torso nudo con una corda al posto della cintura stava educatamente facendo la predica al figlio in russo.
A completare il quadretto, Paul aveva la radio portatile accesa, e sedevamo rivolti verso il mare, Paul e io.
Un gruppo di studenti con la felpa di Yale si rovinava le scarpe correndo nell’acqua fredda. C’era un bagnino col fischietto stretto tra i denti.
Un lampo di luce accese il cielo, ma il rombo lo seguiva da lontano.
La radio di Paul gracchiò una pubblicità di cibo per gatti.
Quella a The Point era stata una sosta senza scopo in un sabato di vagabondaggio senza posa in macchina con mio figlio. Avevamo seguito i cartelli.
Prima avevo litigato con mio marito Jeff. Jeff stava usando il telefono. Era «in attesa».
«Non mi fido di Paulie» mi aveva detto, coprendo il microfono con le dita. «Gli voglio bene, è mio figlio, ma raramente gli credo e sono sicuro che mente. Per me è un impostore».
Ricordo che ero scappata in camera a recuperare la mia copia delle chiavi della macchina. C’ero rimasta un pezzo, ad accarezzarmi rabbiosamente i capelli. Mi ero abbottonata qualcosa, un cardigan. Non mi ero degnata di truccarmi, figurarsi di allacciarmi le scarpe da tennis.
Jeff era ancora al telefono quando ero rientrata nella stanza passando accanto alla libreria. «Guarda che non sei il solo» stava dicendo. «La aspettiamo tutti la consegna». Jeff era il responsabile vendite di un mobilificio.
Ero tornata sul balcone. «Paulie!» avevo urlato verso il cortile e il quartiere in generale. Paul era là fuori, da qualche parte. Non aveva sentito il padre dire quelle cose.
Paul aveva quattordici anni; il nostro unico figlio.
Aspettavo Jeff.
«Un secondo» mi aveva detto, e al telefono: «Forse dovresti prestare più attenzione, amico mio». Era rimasto in ascolto, poi: «Abbi pazienza, ma non ti credo».
Paul si era alzato dalla nostra panchina e aveva cominciato a gironzolare intorno al ragazzino russo. Tra le sue prede c’era un granchio a ferro di cavallo. «Fico!» disse Paul, sghignazzando come una bambina.
«Somiglia a un elmetto, eh?» lo interpellò il ragazzino russo. Capovolse il granchio rivelando un agitarsi di zampe articolate. Paul cacciò un urlo, tirò un colpo in testa all’altro, corse via e poi tornò.
Il padre del ragazzo si avvicinò alla mia panchina. Aveva le sembianze e i muscoli guizzanti dell’operaio.
Una voce alla radio di Paul parlava dei frigoriferi Coleman. I nostri figli erano inginocchiati uno accanto all’altro e facevano cadere sul granchio una pioggerellina di sabbia.
Il mio Paul si strattonava la maglietta di cotone filo di Scozia, se la sfilò a fatica poi l’adagiò aperta sulla sabbia. L’amichetto ci posò sopra il granchio. Insieme presero a trascinare il granchio per la spiaggia, gli facevano fare un giro.
Il petto di mio figlio era di un bianco farina e le braccia erano esili, vicino a quelle tornite del ragazzino russo. Gli studenti dovevano aver dedotto che io fossi la moglie del russo.
Ci si rivolgevano come a una coppia.
Chiesero com’era l’Unione Sovietica.
«E io che ne so?» disse il russo. «Ne è passato di tempo». «Ora le buschiamo, dal tempo dico» disse un giovanotto. «Tempesta in arrivo».
«Paulie, smettila di fare avanti e indietro» dissi «Rimettiti la maglietta».
«Guarda». Si girò e, partendo di scatto, si precipitò a passo sgraziato verso l’acqua.
Si compiaceva della propria presunta velocità.
Lo diceva in continuazione.
Guarda che roba, e cose simili.
«Certi bambini crescono in fretta» disse il padre russo. «Ad altri invece è concesso di restare bambini più a lungo. I più fortunati, per come la vedo io».
E il padre russo sorrideva come se amasse tutti i ragazzi del mondo e fosse orgoglioso di ciascuno di loro, perfino del mio. Sorrideva come se amasse anche me. Lo lasciai entrare, tutto quell’amore così facile.