Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2021
Scozia, perché Sturgeon non ha fretta
Le tre nazioni della Gran Bretagna hanno votato per tre partiti diversi, ma hanno fatto tutte la stessa scelta nel “supergiovedì” elettorale. Inglesi, scozzesi e gallesi hanno optato per la continuità, scegliendo di confermare il partito già al potere da molti anni invece di rischiare il cambiamento in un periodo di pandemia, crisi economica e grande incertezza.
L’Inghilterra ha premiato i conservatori guidati da Boris Johnson, che hanno continuato a fare breccia nelle zone un tempo “rosse” del nord del Paese. Agli occhi della maggioranza degli inglesi – o perlomeno del 40% che si è preso la briga di andare a votare – il Governo di Londra ha il doppio merito di avere realizzato Brexit e di avere vaccinato ormai due terzi dei cittadini. La promessa di Johnson che il Paese «ha ormai imboccato una strada a senso unico verso la libertà» ha fatto breccia.
L’opposizione laburista, umiliata alle urne, si è dovuta accontentare di una manciata di sindaci, anche se di città importanti come Manchester, Liverpool e Londra. Andy Burnham, riconfermato a Manchester con oltre due terzi dei voti, si presenta ora come il più credibile sfidante per la leadership del partito quando e se Keir Starmer, bersagliato da critiche da destra e da sinistra, si farà da parte.
È andata molto meglio in Galles, dove il partito laburista, al Governo da 22 anni, ha rafforzato il suo dominio conquistando 30 seggi sui 60 del Senedd. Anche qui l’effetto coronavirus si è fatto sentire: gran parte del merito del successo laburista viene attribuito al leader Mark Drakeford per la gestione competente della pandemia.
In Scozia il partito nazionalista, l’Snp, al potere da 14 anni, ha mantenuto e rafforzato la sua posizione dominante, raccogliendo un voto su due e più consensi dei conservatori e laburisti messi insieme. Gli scozzesi erano ben consci dell’importanza del voto: l’affluenza alle urne del 63,2% è stata la più alta della storia. Anche in Scozia la pandemia ha pesato sul voto. Nicola Sturgeon, premier e leader dell’Snp, è stata una presenza quotidiana nella vita degli scozzesi con i suoi aggiornamenti costanti sull’andamento della lotta al coronavirus. La sua empatia, risolutezza e competenza hanno fatto salire la sua popolarità a livelli altissimi, anche tra gli unionisti che non condividono le sue aspirazioni indipendentiste.
I 64 seggi conquistati dall’Snp, assieme agli 8 seggi dei Verdi, altro partito pro-secessione, portano a una chiara maggioranza a favore dell’indipendenza nel Parlamento di Holyrood. Forte del suo «innegabile mandato democratico», la Sturgeon ha dichiarato che un secondo referendum sull’indipendenza della Scozia s’ha da fare. «È una questione di quando, non di se», ha detto ieri.
Johnson ha ribadito di non voler concedere un secondo referendum che l’Snp non ha il diritto di esigere, dato che il partito non ha ottenuto i 65 seggi necessari per avere la maggioranza assoluta.
Il premier britannico vuole rafforzare le sue credenziali di demiurgo: ha invitato i leader di Galles e Scozia a un summit per collaborare alla ripresa post-pandemia che, ha sottolineato, deve essere la priorità assoluta. Dipingere la Sturgeon come un’irresponsabile per la sua fissazione con l’indipendenza: questa la strategia di Johnson, che difficilmente funzionerà, dato che la cauta premier ha messo in chiaro che di referendum si parlerà solo quando la pandemia sarà stata definitivamente sconfitta, forse nel 2023.
Per la Sturgeon è una missione troppo importante per prendere scorciatoie alla Catalogna, che si rivelano poi vicoli ciechi. Vuole un referendum legale, valido e riconosciuto a livello internazionale e soprattutto vuole vincerlo. Sa che più resta al potere Johnson, inviso agli scozzesi, più aumenterà il sostegno per l’indipendenza. Lo scontro tra Johnson e Sturgeon è appena agli inizi. Non sarà un rapido duello con un chiaro vincitore, ma una lunga partita a scacchi tra due abili giocatori.