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 2021  maggio 10 Lunedì calendario

I duecento anni di Dostoevskij

“Ero come divorato dalla febbre; puntai tutto quel mucchio di denaro sul rosso e d’un tratto mi riebbi! E solo quella volta, in tutta la sera, la paura mi prese come un brivido gelido e si manifestò con un tremito delle braccia e delle gambe. Con terrore mi resi conto e divenni cosciente in un istante di quel che per me avrebbe significato perdere in quel momento. Con quella posta mi ero giocato la vita intera”. A raccontare questo erotico spasimo di vittoria al gioco e il suo rovescio, cioè la febbrile paura di perdere, è il giovane e spiantato Aleksej Ivanović, che tenta la fortuna alla roulette per aiutare la sua amata che è in grosse difficoltà finanziarie. Ci troviamo nell’ipotetica città tedesca di Roulettenburg, il cui nomen/omen suggerisce essere sede di un casinò. Ma soprattutto, siamo dentro al romanzo Il giocatore (1866) di Fëdor Dostoevskij, in cui l’autore, attorno alla vicenda di Aleksej, tratteggia una radiografia letteraria del vizio del gioco, un’istantanea dei modi in cui il demone dell’azzardo può possedere uomini e donne di ogni età ed estrazione sociale. Ironia della sorte, mentre è completamente assorbito dalla scrittura del primo dei suoi quattro maggiori romanzi (Delitto e castigo), Dostoevskij scrive Il giocatore in un solo mese, l’ottobre del 1866, il solo concesso dall’editore Stellovskij, pena la perdita di ogni diritto sulle future opere. Perché ha dovuto piegarsi a un tale contratto capestro?
Semplice: i debiti di gioco. Già: quando la vita supera la letteratura! Nell’anno del bicentenario della nascita dello scrittore russo, lo racconta ottimamente La febbre del gioco (Marcos y Marcos, pp. 160, euro 16), un delizioso libello pastiche che uscirà tra qualche giorno, curato dall’attento slavista Fausto Malcovati.
Per quasi dieci anni, dal 1862 al 1871, Dostoevskij subisce il richiamo del tavolo: irrazionale come ogni vero giocatore, le sue mani sono “incatenate al gioco”. Vince alla roulette, si ripromette di andarsene, di pagare i debiti; poi al tavolo da gioco ci ritorna, spasima, e non si stacca finché non perde tutto. Si umilia, si dispera, chiede a moglie e amici i soldi per il biglietto per tornare in Russia e smettere, ma va a giocarsi anche quelli. Sono gli anni in cui scrive Memorie dal sottosuolo, Delitto e castigo, I demòni, L’idiota. Il gioco d’azzardo in Russia è proibito nel diciannovesimo secolo, così lo scopre viaggiando per l’Europa, dopo l’esilio in Siberia nel “giardino dei cosacchi”, vecchia dacia in mezzo alla steppa.
Il curatore Malcovati mette insieme con passione di dettaglio carte e lettere turbinose scritte sotto la pressione dei debiti di gioco. Le missive partono da Baden-Baden, Amburgo, Saxon-les-Bains, Wiesbaden (tutte città che ospitano casinò). Al fratello Michail nel settembre 1863 scrive: “A Wiesbaden, ho messo a punto un sistema di gioco, l’ho applicato e ho vinto subito mille franchi”. S’illude di essere un esperto, mentre è solo schiavo. Se ne vergogna. Alla seconda moglie Anna Grigor’evna chiede: “Anja, dammi la tua parola che non mostrerai mai a nessuno queste lettere”; e ancora, dopo aver perso tutto quello che lei gli aveva spedito: “Perdonami, angelo mio, forse questo maledetto gioco, questa fissazione sparirà”. Chiede soldi anche agli amici. Nell’agosto 1865, al drammaturgo Ivan Sergeević (che trasse spesso d’impaccio Fëdor), dopo aver confessato di aver perso “anche l’orologio”, scongiura: “Sono disgustato e mi vergogno molto di disturbarvi ma, a parte voi, non ho nessuno a cui rivolgermi. Da uomo a uomo vi chiedo mille franchi”. È il 1865 quando, inseguito dai creditori, firma un contratto capestro di 3 mila rubli con l’editore Stellovskij per un nuovo romanzo. Tuttavia non scrive, ma parte per la Germania, si ferma a Wiesbaden, gioca e perde tutto.
Sono anni di una giostra micidiale fatta di vincite, perdite, suppliche: un vibrante inferno fino a quando, il 28 aprile 1871, dopo aver dilapidato l’ennesima somma che la moglie gli aveva mandato per tornare a casa, da Wiesbaden Fëdor scrive: “Sappi, Anja, che adesso questa fantasia è finita per sempre” e ancora “è venuta la nostra resurrezione”. Cosa sia successo, lo spiega bene la stessa Anja nel suo Diario – che Malcovati in un unico piano sequenza propone nel volume – “La disperazione che provò in quella settimana lo colpì a tal punto che decise di non giocare più in vita sua”. E così fu.
Per Freud (lo spiega in Dostoevskij e il parricidio) il gioco era un modo per punirsi, una specie di soddisfazione autoerotica, che una volta soddisfatta, semplicemente svanì. Di sicuro, Fëdor vive la fine della febbre del gioco come una “resurrezione”, una rinascita divina. Non a caso in quegli anni prende appunti per un romanzo di cui ha già il titolo: Vita di un grande peccatore (che spalmerà in I demòni e L’adolescente) dove per “vita” usa “žitiē”, usato in agiografia per le vite dei santi. In un passaggio di queste note sparse leggiamo, riguardo al protagonista: “È stato morso dalle passioni”, e poi salvificamente: “Cominciò a esercitare la propria forza di volontà”.