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 2021  maggio 10 Lunedì calendario

Le afghane in ostaggio

Vent’anni fa il mondo si accorse di milioni di donne costrette in una prigione di stoffa. Il burqa azzurro, giallo, rosso divenne il simbolo dell’arretratezza dell’Afghanistan, ma anche una delle ragioni per giustificare l’intervento internazionale. La lotta al burqa garantì alla guerra la simpatia degli elettorati democratici. È logico prevedere che se i talebani vincessero, le donne e i loro diritti sarebbero le prime vittime. Tanti sacrifici, anche italiani, per tornare alla casella di partenza? Ne valeva la pena? La condizione delle donne afghane è stata vittima di guerra o, come in questi ultimi 20 anni, medaglia da appuntarsi al petto. Un ritorno talebano potrebbe trasformarla in moneta di scambio.

Prima dei talebani
Negli Anni ’70, almeno l’80 per cento degli afghani viveva di ciò che coltivava senza sapere leggere o scrivere. Del rimanente, solo la metà era alfabetizzato. Le figlie dell’élite si fotografavano in minigonna davanti all’università, ma il 99% dei matrimoni era combinato e la famiglia dello sposo «comprava» la ragazza. Nel 1978 il governo sotto l’influenza di Mosca fissò per legge il «prezzo della sposa» a un valore simbolico. Il femminismo sovietico voleva liberare le donne afghane, ma fu un autogol perché, in assenza di pensioni, gli anziani erano a carico dei figli maschi e la «vendita delle figlie» era il contributo femminile alla vecchiaia dei genitori. I mujaheddin raccolsero consensi anche reclamando la libertà del «prezzo delle spose». L’Afghanistan è in guerra dall’anno successivo il varo di quella legge. L’agricoltura abbandonata, il Paese alla fame, con 8 milioni di profughi e 2 di morti, l’importante era sopravvivere, l’emancipazione femminile non la priorità.

Con i talebani
Gli «studenti del Corano» pongono fine alla guerra civile tra i mujaheddin che avevano battuto i sovietici. Permettono di tornare ai campi, a mangiare. Con loro al governo dal 1996 l’educazione delle bambine doveva fermarsi agli 8 anni quando diventava proibito ogni contatto con maschi che non fossero parenti. Vietate anche le visite dei medici così la mortalità femminile si impennò. Le donne potevano comparire in pubblico solo coperte dal burqa e senza tacchi. Le scarpe non potevano essere bianche. La vita media delle donne scese a 40/42 anni contro i 48 degli uomini. Il reddito pro capite era di 0,47 dollari al giorno. In tutto il Paese c’erano 50 mila automobili.

Dopo i talebani
L’aspettativa di vita è salita a circa 60 anni. Tre milioni e mezzo di bambine sono iscritte a scuola, 100 mila ragazze all’università. Il budget statale è lievitato grazie alle donazioni internazionali, dai 27 milioni dell’era talebana a miliardi di dollari. Improvvisamente si sono potute fare moltissime cose. Eppure, ancora oggi, ci sono altre 3 milioni di bimbe fuori da scuola e solo un’adolescente su tre sa leggere e scrivere contro uno su due se maschio. Il 70% dei matrimoni è combinato (e pagato) e un parto su due avviene in casa. In un Paese con 30 milioni di abitanti solo 4 mila donne hanno la patente.

Dopo il ritiro Usa 
Gli ultimi decreti firmati dallo scomparso mullah Omar (capo e fondatore del movimento) riconoscevano che «l’istruzione moderna è importante per l’Afghanistan» e che le «donne hanno diritto alla proprietà privata, all’eredità, all’educazione, alla salute, a scegliere il marito, alla sicurezza e a una buona vita». Era il 2014. Il mullah senza un occhio non aveva cambiato idea, semplicemente non avrebbe potuto controllare aree del Paese senza l’aiuto di Ong che provvedessero ad ospedali, scuole, strade creando consenso. Oggi un afghano su tre ha il telefonino. Gli stessi talebani usano Twitter, apprezzano il lusso e producono video patinati. Ci sono donne al tavolo delle trattative e gli integralisti non se ne vanno. Dovessero governare, anche i talebani avrebbero bisogno di soldi stranieri. Nel 2001 venivano soprattutto da Pakistan e Al Qaeda interessati a un Afghanistan arretrato. Domani basterà seguire i dollari per capire che tipo di Paese vorrà il «donatore». Le donne saranno ancora un volta ostaggio del «grande gioco» sul Paese.