Huffington Post, 9 maggio 2021
Lunga intervista a Vasco Brondi
Vasco Brondi ha iniziato più di quindici anni fa suonando il basso in un gruppo punk. Poi il basso l’ha venduto su eBay, è finito su un’isola greca, mentre il punk continua a uscire dalla sua musica sotto forma di fede più che di suono: «Da giovane ho incontrato vari San Francesco per strada. Persone che vivevano senza un soldo in tasca, né tantomeno in banca, apertamente contro il sistema sociale, sole con il proprio corpo. Testimoniavano, con la propria vita, l’assoluto: l’idea che ci fosse un modo di salvarsi l’anima. Non erano preti. Anzi non appartenevano a nessuna grande religione costituita. Erano punk. E sono stati i veri San Francesco della mia vita».
Dopo dieci anni con le Luci delle centrale elettrica – nome di un gruppo composto solo da se stesso, con il quale è riuscito sporcare il bel canto della canzone italiana con la furia della chitarra acustica distorta – Vasco Brondi ha fatto uscire il suo primo disco firmato col suo nome e cognome. Il titolo è Paesaggio dopo la battaglia. In copertina, ha una foto inedita di Luigi Ghirri e, all’interno di un brano, il Sant’Agostino dell’«amate e fate quello che volete». Nelle canzoni si nomina il sacro, si parla di voci altissime, Notre-Dame a fuoco, dei sentieri degli Dei. Lo si ascolta in balìa di una forza di gravità ribaltata, che, anziché spingere verso il basso, solleva in verticale.
«Noi tendiamo a credere che sia la politica a mandare avanti il mondo. Invece, siamo vivi perché il sole rimane acceso. Non esistono solo le leggi della città, ci sono anche quelle dell’universo. Le canzoni danno la possibilità di aprire uno spiraglio verso la trascendenza. Nel proprio piccolo, vanno nella stessa direzione in cui Picasso diceva che va l’arte: togliere la polvere dei giorni e farci sentire il pulsare della vita».
Prima di incidere il suo primo disco, Vasco Brondi lavorava in un bar coi suoi fratelli a Ferrara e suonava nel fine settimana. Una sera, Giorgio Canali, ex chitarrista dei CSI e produttore di cui si riconosce l’impronta, lo vide su un palco di un locale e pensò che fosse un gran ladro, ritenendo la rapina un dono per la buona musica. La sera stessa gli propose di fare un disco, e così nacque Canzoni da spiaggia deturpata, un avvenimento per la musica che è stata chiamata indipendente. «Oggi la vera indipendenza è non ubbidire ai cliché. Quello dell’artista maledetto, per esempio: quanta gente ha giocato a fare il ribelle osservando scrupolosamente la legge della droga, del sesso e del rock ’n roll. Da questo bisogna essere indipendenti, innanzitutto. Ho passato anche io i giorni e le notti a bere, ed è stato solo tempo perso».
Oggi Vasco Brondi ha trentasette anni e prima di rispondere a ogni domanda, si ferma qualche secondo a riflettere. In alcune occasioni, anche più di qualche secondo. Attorcigliandosi la barba intorno al dito.
Lei non crede alla maledizione?
«Credo che non ci siano delle regole auree. Per me, l’ispirazione è sempre stata avvolta dal mistero e mi sorprende che spesso la si spogli di questo elemento misterioso: è l’indice di quanto la nostra logica sia stata penetrata dalla razionalità delle macchine, che producono una certa cosa, sempre in un certo intervallo di tempo».
Non si fabbricano anche le canzoni?
«Credo che anche per le canzoni valga quello che Patrizia Valduga ha detto della poesia: non si è poeti che per tre o quattro giorni all’anno. Non è sufficiente chiudersi in uno studio di registrazione per tirar fuori un album. Almeno, non è così per me».
Com’è per lei?
«A volte, torno da un lungo viaggio e quando il corpo ha smesso di essere in allerta, quando anche l’ultimo muscolo si distende e sono in pace, si crea la condizione per titar fuori qualcosa».
Perché sono passati quattro anni dal suo ultimo disco?
«Ero disilluso. Mi sembrava che la ricerca musicale fosse diventata ricerca del modo migliore per finire in radio, poco più che una buona politica di marketing. Per molto tempo non ho scritto nessuna canzone, non ero neanche sicuro lo avrei più fatto. Poi è venuta fuori Chitarra nera. Ma non volevo cominciare a scrivere un disco. È accaduto e basta».
Un verso fa: “Suoni e fai pubblicità”. Vuol dire che non c’è scampo?
«Essere costretto a vivere isolato, durante questo periodo, mi ha avvicinato di nuovo alla musica come la vivevo all’origine, sia da musicista, sia da ascoltatore. Non so se ci sia scampo. So che mi sono reso conto di essere stato distratto».
Distratto da cosa?
«Dall’ambiente. Da quello che circonda la musica. Dal fatto che c’è anche gente che la utilizza come uno strumento per la propria ambizione di celebrità. Quando ho iniziato, ti dicevano che eri un venduto anche solo se ti mettevi una camicia. Oggi, invece, pochi trovano discutibile che non sia chiaro dove finisca un’artista e dove inizi un testimonial. Non lo dico moralisticamente. Non salgo su un piedistallo a giudicare. Parlo per me. Ho ritrovato la musica che mi ha curato, la musica come anticorpo del sistema immunitario dell’anima».
Non sta facendo anche lei pubblicità, ora?
«No. Io sto chiarendo a me stesso, insieme a lei, quello che ho fatto in un disco. Aggiungo che non ho niente contro la pubblicità. Ritengo, però, che il mondo della musica sia diventato così insostenibile economicamente che temo la pubblicità avrà sempre più spazio. Ed è indispensabile tracciare chiaramente il confine tra un musicista e uno che grazie alla fama acquisita con la musica vende».
Fedez fa pubblicità?
«Fedez ha detto quello che sentiva. Perché non ce la faceva più a tenerselo dentro. È un’anomalia, dentro un panorama in cui non è per niente cool dire qualcosa sul mondo. Mi pare abbia mostrato (anche) quanto è diventata più debole la tv generalista di fronte alla forza dei nuovi media».
Lei cosa ha curato con la musica?
«Il mio primo approccio alla musica è stato il punk. Era considerato una musica autolesionista, mentre per me è stato uno degli incontri più salutari della vita. Il punk ti invita a fare schifo e ad andarne fiero. Ti dice che puoi fare del modo in cui sei la tua bandiera. E questo mi è servito a non vergognarmi di com’ero, addomesticando la mia timidezza. E mi ha aiutato a mettere in primo piano l’essere, anziché i modi in cui ti dicono che devi essere».
Non nasce così il mito dell’uno vale uno?
«Che intende dire?».
Che con due accordi fai il musicista, e con Google puoi fare anche il virologo, tanto sei tu.
«Per essere uno scienziato è imprescindibile studiare. Per fare il musicista no. Chi frequenta le scuole di canto, canta sicuramente meglio di come cantava Lou Reed. Eppure, la voce di Lou Reed è indiscutibilmente unica. Andare al conservatorio non è indispensabile per riuscire a esprimersi musicalmente: anzi, c’è molta gente che sa andare su e giù da ogni scala del pentagramma e però non riesce ad avere una voce, un suono, che sia suo e solo suo».
Lei crede ancora nell’autenticità?
«Essere autentico per me vuol dire ancora qualcosa. Per esempio, vuol dire esprimere ciò che pensi o che senti, anziché la prima cosa che ti passa per la testa».
Non le piacciono i social network?
«Il punto non è il mi piace o il non mi piace. Credo che la riflessione sia diventata l’attività più fuori luogo del nostro tempo. Sui social network ci si precipita a dire la propria il prima possibile, perché è obbligatorio non perdere tempo e reagire immediatamente a quel che succede. Penso sempre più spesso a quel che diceva Deleuze – non abbiamo bisogno di altri spazi per esprimerci, avremmo disperatamente bisogno di più spazio per stare zitti».
Per questo medita e usa alcune pratiche orientali?
«Li abbiamo rimossi, ma anche la cultura occidentale è piena di mistici. La meditazione era l’alimento dei filosofi greci. L’Italia stessa è costellata dalla presenza di eremiti. Ho visitato molte chiese costruite per ricordarli. L’ultima a Lampedusa. Onora un eremita cristiano arrivato così vicino a Dio da non fare alcuna differenza tra cristianesimo e islam. Celebrava matrimoni con entrambi i riti, ritenendole due strade diverse per arrivare alla stessa destinazione».
Com’è il paesaggio dopo la tempesta del Covid?
«Naturalmente pieno di macerie. In esse, c’è ancora la forma del mondo precedente, seppure in una combinazione che non si è mai vista prima. Non ho mai creduto ai grandi insegnamenti collettivi. Penso che le vere consapevolezze si affidino piuttosto al singolo essere umano».
Non impareremo niente?
«C’era tutto quel che serviva per sapere che l’uomo periodicamente si è trovato ad affrontare una pandemia, eppure non credevamo che sarebbe successo a noi. L’uomo moderno crede di avere il dominio del mondo. Le leggi dell’universo ogni tanto gli ricordano che è sulla terra da molti meno anni di alcune piante».
Non c’è differenza tra noi e le altre specie?
«La differenza c’è, ma non nel senso che va per la maggiore. Il fatto che qualcuno appartenuto alla specie umana abbia scritto molti anni fa la “Divina commedia” non fa di noi degli esseri superiori. Anche se abbiamo le nostre particolarità. Direi una fra tutte».
Quale?
«Che possiamo risorgere. Si dice che i gatti abbiano sette vite. Ebbene, gli esseri umani possono averne settemila, se settemila volte sono in grado di resuscitare, ricreando la propria vita daccapo».
Vale anche per l’Italia?
«L’Italia ha dimostrato più volte di sapere sbucare fuori dalla catastrofe togliendosi disinvoltamente la polvere dalla giacca».
È per questo che la canta?
«La canto per amore».
Amore patriottico?
«No. Non userei questo termine».
Perché?
«Perché l’idea della patria mi pare tracci immediatamente dei confini tra noi e gli altri, e non era quello che volevo fare».
E cosa voleva fare?
«Volevo dire quando mi sento attaccato all’Italia e quanto la detesto, quanto la avverso e quanto mi sento attratto, quanto la maledico e quanto la benedico».
Appunto.
«Appunto cosa?»
Nemmeno l’amore patriottico è privo di ambivalenza.
«Ma può essere anche retorico. Mentre più difficilmente si può fare un comizio cantando una canzone d’amore».