il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2021
Intervista ad Anthony Barnett
L’intervista con Anthony Barnett doveva durare 15 minuti, e invece il confronto si protrae per un’ora. Secondo i risultati delle ultime elezioni amministrative, è chiara la débâcle laburista nella maggioranza dei 143 seggi chiamati a rinnovare i propri amministratori, un dilagare di blu conservatore nelle regioni ex roccaforti laburiste, già passate ai Tories alle politiche del dicembre 2019: la sconfitta più cocente per il Labour degli ultimi 84 anni.
Giornalista, attivista pro democrazia in un Paese che della democrazia è, con stanca retorica, ancora considerato il faro, cofondatore nel 2001 del sito di giornalismo politico Open Democracy che promette di “sfidare il potere e incoraggiare il dibattito democratico in tutto il mondo”, Barrett è un conoscitore profondo della storia del partito laburista britannico e un analista non conformista del suo presente.
Qual è la sua analisi di questa ennesima sconfitta, a partire da Hartlepool, roccaforte laburista espugnata dai Tories in una elezione suppletiva?
Guardo ai dati e non vedo quello che viene raccontato dai media, cioè un massiccio passaggio di voti dal Labour ai Conservatori. Vedo una partecipazione al voto ancora più bassa del solito per le Amministrative, cioè un forte astensionismo. Gli elettori laburisti sono stati a casa.
Perché?
Il Labour non ha assolutamente nulla da dire e infatti non ha detto nulla. Quella di Hartlepool era solo una suppletiva minore: è diventata così importante grazie all’attenzione dei media. Boris Johnson ci è andato tre volte, e vi ha portato la sua narrazione basata sul nazionalismo britannico: la Great Britain, il ritorno dell’imperialismo. Assurdità di un leader bugiardo, sulla scia del vostro Berlusconi, il grande modello, e poi di altri fra cui Trump. Perché vincono? Dicono alla gente quello che vuole sentirsi dire, ma soprattutto hanno una narrazione chiara che contrasta quella globalista, della finanza globale con cui il blairismo è andato a braccetto per 20 anni. Il Labour di Starmer cosa dice? Balbetta: ‘faremo politiche per i poveri. Torneremo a parlare alla working class’. Ma il concetto di working class è morto è sepolto. E lo ha sepolto Blair. La classe operaia è un costrutto sociale nato con i meccanismi della produzione industriale, cioè ormai un’astrazione.
È ancora colpa di Corbyn?
Ma figuriamoci, l’ex leader del Labour ormai è il capro espiatorio di tutto, anche di processi politici globali. E poi bisogna distinguere fra Corbyn e il corbynismo. Non lo difendo come leader, ma il corbynismo ha innescato nel partito forze giovani e fresche che sono ancora lì. Quanto a Starmer, sarebbe un eccellente primo ministro ma non ha nessuna visione per una politica nazionale.
Fra i commenti più desolati alla sconfitta, quello di un alto funzionario laburista rimasto anonimo: “A essere sinceri, il partito è talmente fottuto che non è più nemmeno una questione di trovare il leader giusto. È un problema esistenziale. Che senso ha un partito laburista?”. Che senso ha?
Il laburismo, cioè questo continua tormentata ricerca di auto-definizione a partire da una idea di sinistra ormai scomparsa non ha senso, è finito. Basta (in italiano, ndr). Però serve ancora un partito decente, non corrotto, antirazzista, anti-sessista, ecologista, egualitario, che governi, invece di fare marketing, nell’unica intersezione possibile, che non è la scelta fra libero mercato e statalismo, ma una via di mezzo che non demonizzi il capitalismo.
Sembra l’identikit della terza via di Blair
No, perché il cuore della terza via era la centralizzazione del potere politico, cioè era fondamentalmente antidemocratica, a braccetto con globalizzazione e finanziarizzazione, e ha portato ad un fatalismo degli elettori rispetto a queste enormi forze che è poi deflagrato con la bolla finanziaria del 2008. E invece bisogna avere il coraggio di affrontare la questione dell’identità nazionale, dire chiaramente ai suoi elettori chi sono, invece di lasciare la faccenda alla narrazione imperialista Tory o, nel caso dell’Ue, ai nazionalismi dei governi polacco o ungherese.
Lei, da inglese, è attivissimo nella campagna Europe for Scotland, per una Scozia indipendente da Londra e di nuovo in Europa.
La Brexit sta facendo implodere il Regno Unito, che è un costrutto imperialistico e anacronistico. Il sì alla Brexit è stato un ‘no’ solo inglese, non britannico, alla politica di Westminster, interpretato come no all’Europa. La domanda cruciale è se il Regno Unito post Brexit resterà nella sfera di influenza europea o passerà a quella Usa. L’indipendenza scozzese è un test per l’Ue. Avrà l’elasticità di accogliere il ritorno della Scozia e dimostrare che la sua priorità è il progetto europeo, non il rispetto di procedure?