Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2021
Le materie prime riaccendono l’inflazione
L’inflazione? Le banche centrali insistono che sarà una fiammata «transitoria». Ma i prezzi delle materie prime, così come i costi di trasporto, continuano da mesi a macinare record. E le difficoltà di approvvigionamento – anche per componenti chiave come i microchip – sembrano ancora lontane dal risolversi. Così le imprese hanno cominciato a muoversi, ritoccando a loro volta i listini al rialzo e trasferendo a valle le tensioni inflazionistiche, fino agli ultimi anelli della catena del valore: i consumatori finali.
Il fenomeno sta prendendo piede non solo negli Stati Uniti – dove la crescita è ripartita di slancio dopo il Covid – ma anche in Europa, dove l’economia è a ancora zoppicante a causa dei lockdown, ma l’industria è sommersa di ordini e la produzione ha ripreso a pieno a ritmo.
Ad aprile, rileva Ihs Markit, le imprese manifatturiere dell’Eurozona «hanno aumentato i prezzi di vendita ad un livello mai registrato in oltre 18 anni di raccolta dati». È quanto emerso dalle indagini relative all’indice Pmi, che per il secondo mese consecutivo – e dopo dieci mesi di espansione ininterrotta – si è attestato su livelli record (62,9 punti): una prestazione che la società d’analisi non esita a definire «strabiliante», ma che non è al riparo dai rischi, se gli intralci che da mesi ostacolano le supply chain non verranno superati in tempi brevi.
La produzione industriale nonostante tutto corre, al traino delle realtà più solide. Ma potrebbe correre ancora di più, riconosce Ihs, se non ci fossero carenze di materiali e un allungamento dei tempi di consegna «mai osservato nella storia». Le imprese europee si stanno rifornendo a ritmi «senza precedenti», ma faticano a ricostituire i magazzini e non riescono a soddisfare puntualmente gli ordini. Le giacenze calano, quelle di materiali e pure quelle di prodotti finiti, osserva Ihs Markit, tanto che ad aprile c’è stata la maggiore contrazione delle scorte da dicembre 2009. E il costo dei rifornimenti continuano a salire: il Materials Price Index (Mpi) è in rialzo del 21% da inizio anno ed è ai massimi dal 2013, trainato da aumenti vertiginosi per tutte le voci, dalle materie prime alle componenti hi-tech (tra cui i microprocessori) ai trasporti, soprattutto, ma non solo, quelli via mare.
Di fronte a tensioni così forti e con una domanda molto vivace, ci sono meno scrupoli a ritoccare i listini di vendita. E se finora sono rincarati soprattutto i beni intermedi e i beni di investimento, adesso è arrivato anche il turno dei beni di consumo, quelli che acquistiamo ogni giorno andando a fare la spesa.
Nelle ultime settimane diversi colossi europei, sulla scia delle multinazionali Usa, hanno annunciato un aumento dei prezzi di vendita. Tra questi ci sono Unilever, che prevede rincari tra l’1 e il 3%, e Nestlè, il cui ceo Mark Schneider ha denunciato pessimismo sull’inflazione: fenomeno che «stando a quanto possiamo vedere ora riguarda molto il 2021 e per certi versi anche il 2022».
Anche la francese Renault – che come tutte le case automobilistiche soffre per la carenza di microchip e per il costo esorbitante di metalli, plastica e gomma – ha comunicato che sarà costretta ad alzare i prezzi di vendita. Mentre Akzo Noble, il maggior produttore europeo di vernici, è già alla seconda tornata di aumenti: «Avete potuto notare un rincaro del 4% per le nostre vernici decorative in tutto il mondo ma questa è solo la prima ondata», ha dichiarato il ceo Thierry Vanlancker, specificando che il prossimo rialzo si applicherà a tutte le categorie di prodotti.
Le multinazionali Usa dei beni di consumo hanno già rotto da tempo gli indugi, comunicando una raffica di rincari, non sempre limitati al mercato domestico. Costeranno di più molti prodotti della Procter & Gamble, il cui direttore finanziario Andre Schulten ha denunciato un’impennata del costo delle materie prime mai vista in oltre vent’anni di carriera. Nella stessa direzione si sono mossi anche Kimberly Clarke, Coca Cola, General Mills, Honeywell e molti altri. Whirlpool, che alzerà i prezzi degli elettrodomestici del 5-12% in tutto il mondo, ha descritto enormi difficoltà nel gestire le linee di produzione, focalizzandosi di volta in volta su un prodotto piuttosto che un altro a seconda di quali pezzi e materiali arrivano in fabbrica.
Negli shopping mall statunitensi, di nuovo affollati di consumatori vaccinati dal Covid, molti cartellini dei prezzi sono già stati ritoccati. E gli ulteriori aumenti decisi per i prossimi mesi sembrano fornire conferme allo scetticismo degli investitori nei confronti della Federal Reserve. Alcune banche centrali, tra cui la Bank of England, hanno già avviato il tapering e anche la banca centrale Usa – nonostante le rassicurazioni – potrebbe non riuscire a controllare a lungo l’inflazione senza frenare le politiche monetarie iper espansive. Soprattutto se finita la pandemia riprenderanno il volo anche i prezzi dei servizi (qualche segnale c’è già, persino in Europa) e se dovesse partire anche una rincorsa dei salari.
All’ultima riunione sui tassi il presidente della Fed Jerome Powell, ha ribadito di giudicare «improbabile che un episodio di rincari una tantum alla riapertura dell’economia conduca in futuro a persistenti rialzi dell’inflazione». Quanto ai problemi delle supply chain, Powell insiste che «sono temporanei e ci si attende che si risolveranno da soli». Sulla stessa lunghezza d’onda è Christine Lagarde, presidente della Bce, che continua a ripetere di non volersi focalizzare su «movimenti di breve termine dell’inflazione, legati a fattori temporanei o di natura transitoria».
Ostentazioni di sicurezza che convincono sempre meno gli investitori e che hanno suscitato un moto di insofferenza da parte di Jeffrey Gundlach, ceo di DoubleLine Capital: sull’inflazione la Fed «tira a indovinare», si è sfogato il Re dei bond intervistato da Bloomberg. «Non capisco perché pensino di sapere che è transitoria, se si continua a stampare un sacco di denaro e se abbiamo visto i prezzi delle materie prime salire in modo davvero enorme». I rincari delle commodities sono sotto gli occhi di tutti: il petrolio punta verso 70 dollari al barile, in rialzo di oltre il 50% dallo scorso autunno, quando si è risvegliata la speranza sui vaccini, il rame è vicino al record storico, sopra 10mila $/ tonnellata e il minerale di ferro, ingrediente dell’acciaio, questa settimana ha superato per la prima volta 200 $/tonnellata.
Dal sondaggio globale di BofA Merrill Lynch tra gli asset manager, effettuato a inizio aprile, è emerso che il 93% si aspetta un aumento dell’inflazione nei 12 mesi successivi: una percentuale plebiscitaria, mai registrata nei 27 anni di storia del sondaggio. Nel frattempo anche gli indicatori di mercato sulle aspettative di inflazione continuano a salire, nell’Eurozona e soprattutto negli Usa, dove il tasso di breakeven a 10 anni dei Treasuries è intorno al 2,5%, ai massimi dal 2013, e quello a 5 anni si avvicina al 2,7% per la prima volta dal 2011
Persino il segretario al Tesoro Usa Janet Yellen si è lasciata sfuggire che «forse sarà necessario alzare un po’ i tassi di interesse per assicurare che l’economia non si surriscaldi», salvo poi precisare di non aspettarsi «un problema inflazionistico».