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 2021  maggio 09 Domenica calendario

Il senso di un inizio d’epoca

L’intera umanità è affratellata da una campagna vaccinale che non distingue in base al censo ma al bisogno. Un autorevole scienziato dichiara possibile un vaccino contro il cancro. Il neoeletto presidente degli Stati Uniti d’America annuncia che rinuncerà ai brevetti dei colossi farmaceutici per favorire la produzione di farmaci salvavita nei paesi poveri. Il presidente del consiglio italiano vara un piano di aiuti pubblici allo sviluppo sociale ed economico per 250 miliardi di euro. La trama di un romanzo utopistico di un autore del secolo scorso? No. La cronaca di ieri.
Sono queste notizie entusiasmanti eppure non suscitano il nostro entusiasmo. In piedi sulla soglia dei bar, mentre, privi di punti di appoggio, ci sforziamo di versare lo zucchero nel caffè, sentiamo ripetere il solito mantra: «Non avreste preso per pazzo chi, solo due anni fa, vi avesse detto che ci saremmo ritrovati a girare con le mascherine e a far la coda per il pane?». È vero, lo avremmo preso per pazzo. Ma non è forse altrettanto vero che avremmo preso per pazzo anche chi avesse profetizzato le quattro notizie apparse sulla prima pagina di ieri? E, allora, che cos’è questo senso di crepuscolare tristezza che ci prende proprio ora, nel momento in cui – sempre usando la lingua dei bar – s’intravede la luce in fondo al tunnel? Chiedetevi: vi sentite all’inizio o alla fine di un’epoca? Molti di voi, e io stesso, risponderebbero: alla fine. Non avrebbero torto. Ma non avrebbe torto nemmeno chi rispondesse di sentirsi all’inizio di una nuova epoca. Verosimilmente, infatti, sono vere entrambe le cose. L’inizio e la fine, per legge cosmica, si toccano. E, allora, perché, in questa tardiva, stanca primavera non riusciamo a cogliere l’inizio, non scorgiamo il germoglio? Siamo sfiniti, indubbiamente sfiniti. Mai le nostre esistenze ci avevano sottoposto a una prova tanto dura sul piano della vita collettiva. Eppure, io credo che ci sia dell’altro. La fatigue della pandemia non basta a spiegare il nostro sfinimento psicologico e morale. Il paragone, spesso abusato, con il secondo dopoguerra è in questo caso calzante: dov’è in noi, ora, su questa terra, sotto questo cielo occidentale, l’esaltante «senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero» di cui parlò Italo Calvino a proposito del clima psicologico e morale degli anni 50 in un’Europa ancora sommersa sotto le macerie della Seconda guerra mondiale? La mia risposta è che stentiamo a ritrovarlo perché abbiamo smarrito il senso della lotta. La stracca, declinante opulenza edonistica in cui siamo cresciuti in coda del secolo scorso, sommata alla strisciante e costante crisi a bassa intensità che ha accompagnato i primi decenni del secolo nuovo, ha rappresentato per tutti noi un lungo apprendistato all’acquiescenza politica, al torpore civile. Abbiamo dimenticato ciò che i nostri padri impararono negli anni formidabili della ricostruzione e ciò che impararono a loro spese i nostri nonni nei decenni delittuosi delle dittature: non c’è democrazia senza lotta per la democrazia; non c’è progresso senza lotta per il progresso; non c’è storia, ma solo uno stagnante limbo di ombre, senza lotta per la storia. Non è la nostra, però, soltanto un’invalidità di tipo psicologico. Ciò che ci manca è la politica. Io credo che la condizione semi-depressiva in cui versiamo sia dovuta all’assenza di un orizzonte politico per i nostri conflitti individuali. Ora che, da Roma a Madrid, i movimenti populisti di sinistra, scaturiti da una spinta prevalentemente reattiva, conoscono il loro triste disfacimento; ora che i partiti populisti di destra, a dispetto della pandemia, ripropongono con nevrotica coazione a ripetere il vecchio copione per la conquista del potere, sulla scena politica niente sembra davvero capace di suscitare in noi il senso della lotta per la democrazia, per il progresso, per la storia, quell’impegno che trasformerebbe la nostra deprimente fatica in uno sforzo esaltante. Se, per un istante, osiamo alzare lo sguardo verso il futuro sopra il bordo delle nostre mascherine, in cui si condensa il fiato affannoso del quotidiano, i segni minacciosi e avvilenti non mancano. Se ne scorgono a centinaia. Ma non mancano nemmeno quelli promettenti. Il guaio è che la prima metà delle nostre biografie ci ha indotti a credere che democrazia, progresso, benessere, giustizia sociale fossero ovvi e scontati quando invece sono e sempre saranno il premio di una lotta contro la reazione, l’autoritarismo, l’oscurantismo, l’affarismo. Una prova terribile come quella del Covid non può che schiantarci se è vissuta da ciascuno di noi individualmente come privato cittadino ma può invece trasformarsi in una fatica ritemprante se da essa rinasce una dimensione politica. Di là delle cabale sugli indici di contagio e delle zizzanie attorno al coprifuoco, l’unica strada di uscita da questa crisi epocale mi pare quella che conduce a una nuova stagione di impegno civile e di lotta politica. Nessun individuo, lasciato a se stesso, ha uno straccio di possibilità contro una pandemia.