Specchio, 9 maggio 2021
Intervista a Beatrice Venezi
Beatrice Venezi sceglie il maschile cosiddetto "inclusivo" per definirsi professionalmente (direttore d’orchestra e non direttrice, lo sapete, avete visto Sanremo), ma snobba il frac unisex. Entra in scena trattenendo con le mani le lunghezze dell’abito da principessa, per non inciampare, e ne fa una cosa assertiva: con tanti saluti alla virile leggenda dell’orchestra che valuta il carisma d’un direttore dal modo in cui incede sulla pedana, ma pure all’attitudine da damina in pericolo che ha minato l’immaginario di precedenti generazioni femminili impedendo a molte un sereno rapporto con lo strascico e col rosa. Poi sale sul podio e assume i poteri.
Braccia toniche, corpo esultante, capelli che volano. La coda di cavallo. Venezi ha trentuno anni, e da quel metro quadro che Riccardo Muti ebbe a descrivere come «un’isola di solitudine» spicca il volo con l’imperscrutabile naturalezza d’una figlia del tempo. Lei è la ragazza che si trasforma sotto gli occhi del pubblico, sicuro role model per tutte quelle che sono state bambine dai tempi delle Winx in poi, dunque testimonial ideale d’un sacco di belle cose, ivi compresa l’attualità della musica classica. Ovvio che con l’accademia, da Venezi definita «quel mondo un po’ arcigno e brizzolato», non tutto fili liscio.
Direttore, provo a dare un titolo preventivo alla nostra conversazione: che ne dice di "Beatrice contro i brizzolati"?
«Mi piace molto».
Evoca una storia di formazione al femminile: conflitti generazionali, molto pop...
«È una storia generazionale, infatti, e riguarda un diverso modo di concepire non solo la leadership, ma la stessa musica classica, o meglio le sue modalità di trasmissione. L’allargamento del pubblico era già un tema prima del Covid, figuriamoci dopo un anno di teatri chiusi, ed è una questione che a me sta molto cuore».
Invece i brizzolati?
«Tendono a non vedere le esigenze attuali, o magari le vedono, ma fingono il contrario. Penso sia un modo per mantenere il potere, il primato della superiorità culturale. È come se dicessero: questa musica devi già conoscerla prima di ascoltarla. Ma qui siamo in Italia, zero educazione musicale nelle scuole: se chi entra in un teatro si sente respinto, non farà mai un altro tentativo!».
Facciamo un passo indietro. C’era una volta una bambina di Lucca, nata nel 1990. Continui lei.
«Era una bambina timida, ma con una forte predisposizione per la musica, il ritmo, la danza. Mia madre dice che ancora prima di parlare ho canticchiato Attenti al lupo di Lucio Dalla».
C’è una lettura che lascia il segno?
«Delitto e Castigo, e ho detto tutto. Avrò avuto otto, nove anni, quando ho scoperto Dostoevskij: un incontro forte che ha dato il via alla tipica fase della letteratura russa».
È stata così precoce anche la rivelazione della musica classica?
«A casa mia si ascoltavano Venditti e i Led Zeppelin, non si può certo dire che io sia stata indirizzata, non ho avuto quel vantaggio, ma alla scuola elementare c’era una signora che dava lezioni di pianoforte, ho provato e m’è subito piaciuto. Da allora, ho sempre studiato».
Possiamo fare una digressione sulla fate? Per noialtre boomer, erano soprattutto madrine bonarie e un po’ normative che all’occasione trasformavano in carrozze le zucche delle altre. Poi tutto è cambiato, e le fate sono diventate un simbolo di autodeterminazione femminile. Lei a che punto è della favola?
«Ci dovrei pensare meglio. Sicuramente nella mia storia c’è una parte di affermazione personale molto forte, però l’idea di poter aiutare le più giovani mi piace, sarà che so bene cosa significhi non aver avuto una fata madrina che ti trasforma».
La sento amara.
«Nonostante le abbia cercate, non ho trovato grandi manifestazioni di vicinanza da parte delle colleghe più grandi. Sembra che la nostra società funzioni così, maschi contro femmine, anziani contro giovani - e viceversa. Ci perdiamo un sacco di cose. Perciò sì, spero di poter trasformare qualche zucca, più avanti».
C’è tempo, è ancora così giovane, e nel parlare di lei si mette molta enfasi sul primato dell’età. La gioventù è un’arma a doppio taglio?
«Oggi lo è. Muti è stato nominato direttore del Maggio Musicale Fiorentino a 27 anni, nell’Italia attuale sarebbe una cosa impensabile. Senza contare il problema d’invecchiare. La direttrice tedesca Elke Masha Blankenburg, classe ’43, diceva che il pubblico segue con fervore uomini di ottanta, novant’anni, mentre le donne riescono a imporsi solo se giovani e belle. Quel cliché resiste, all’anziano è riconosciuta l’aura della conoscenza mentre la sua coetanea viene vista più come nonnina, ma c’è da dire che nell’Italia gerontocratica di oggi, purtroppo, a 40 anni sei ancora una giovane promessa».
Ha descritto le orchestre come «meccanismi complessi e spietati che immediatamente annusano chi hanno davanti». Riesce a capire cosa gli orchestrali stiano pensando di lei?
«Non sempre, spesso sì. Mettersi in ascolto di quel che si muove intorno, captare l’energia, è uno dei compiti del direttore. Sai già che non puoi piacere a tutti, ma impari a capire chi sono quelli su cui puoi contare per portarti dietro il gruppo».
Le sarà capitato di captare l’energia e pensare: aiuto!
«Sì, certo. Ma anche di avere la sensazione che alcuni musicisti stessero lì con l’atteggiamento del dipendente. Quando accade, cadono le braccia. Lo dico col massimo rispetto per chi svolge altri lavori, fare musica non è come andare in ufficio».
Cos’è?
«È respirare insieme. È raggiungere un momento d’unità, anche quando non ci si conosce».
Quanto tempo c’è, per fare questa magia?
«Per un repertorio sinfonico lo spazio delle prove è di due o tre giorni, ormai i ritmi sono questi. Va meglio con l’opera. A luglio sarò in Inghilterra con Mascagni, L’amico Fritz, per il festival dell’Opera Holland Park. Sei settimane di prove, otto recite: così la prospettiva cambia di molto».
Quando dirige sembra felice. Lo è?
«Molto, mi fa piacere che si veda. Credo che il mondo della classica dal vivo soffra di prestazioni troppo compassate dal punto di vista della performance. In fin dei conti, non hai davanti solo un ascoltatore, ma anche uno spettatore».
Ha paragonato la Boheme a una puntata di Friends, e Puccini a un influencer.
«Se visita la Fondazione Cini di Lucca vedrà i filmati d’epoca in cui Puccini, tutto vestito di bianco, va a caccia sulle sponde del lago di Massaciùccoli. Non credo che lui si vestisse abitualmente di bianco per andare al lago, fu però uno dei primi a capire l’importanza di curare l’immagine. Si faceva spesso ritrarre col Borsalino. Addirittura, scrisse a Steinway per chiedere un pianoforte: "Me lo dovreste dare, perché sono il maestro Puccini...", anche se non ebbe poi successo in questa cosa».
Di lei, invece, qualcuno dice che è un fenomeno mediatico, troppo marketing nel suo percorso. È una colpa?
«La colpa atavica, vien da pensare, visto che non si arriccia il naso di fronte ai grandi direttori che hanno legato le loro carriere a importanti compagini industriali. Il marketing da solo non basta, non sarei durata, e non durerei, se non ci fosse il contenuto. Detto questo, magari ci fosse un po’ più d’intelligenza imprenditoriale nel proporre la musica classica in Italia».
Loggione o social, cosa fa più paura?
«Le critiche del loggione sono sempre gradite. Sui social, sono manifestazioni di pura antipatia personale. Con la pandemia è aumentata la frustrazione, molti non sono riusciti a lavorare, forse attaccare chi fa qualcosa è un modo per sfogare l’aggressività».
Mi dica allora un complimento che l’ha riempita di gioia.
«Me l’ha fatto una ex violinista della Scala, dicendo che il mio stile le ricordava l’attitudine di Bernstein. Io ho studiato con Piero Bellugi, che di Bernstein fu allievo, quindi emozione doppia».
Il suo ultimo libro s’intitola "Le sorelle di Mozart. Storie d’interpreti dimenticate, compositrici geniali e musiciste ribelli". Perché compositrice sì e direttrice no?
«Forse perché le compositrici sono sempre esistite, come dimostra la monaca Ildegarda di Bingen, che dall’anno Mille arriva fino a noi con la sua modernità. Mentre il direttore d’orchestra è una figura più recente, anzi una posizione, che è stata codificata nel maschile inclusivo - pur se nella lingua italiana esiste la versione al femminile. Ma non ne faccio una questione assoluta, dipende dall’ambiente. A me è costato moltissimo farmi chiamare, trattare e pagare al pari dei miei colleghi, forse non ci sono ancora del tutto riuscita. E non mi pare che le colleghe più critiche si siano mai battute per far scrivere "direttrice" sulle locandine».
Tornando alle sue ribelli, da Ildegarda si arriva fino a Björk. Cosa la colpisce in lei?
«La singolarità. Björk è tutto e niente, uno nessuno e centomila. La sua musica è la sua».
Domanda secca: è femminista?
«Mi considero tale, ma in senso estremamente moderno, lontano dai condizionamenti storici».
È una storia di grandi conquiste, non la riconosce?
«Certo che la riconosco, ci mancherebbe. Però, cosa significa essere femminista nel 2021? Bisognerebbe parlarne di più, ci vorrebbe un ascolto più democratico le une delle altre».
È una donna di destra?
«Ci provano sempre a mettermi qualche etichetta, fa parte del gioco, ma io non mi sono mai definita politicamente. Sono libera da schemi ideologici».
È vero che in Giappone la volevano in frac e lei s’è rifiutata?
«Vero, ma me l’hanno chiesto educatamente».
S’è trasferita in Svizzera per amore, ma non parla mai del suo compagno. Neppure una foto insieme su Instagram.
«Voglio preservarlo, questo è un mondo che può essere cattivo. E poi non credo che la vita privata debba essere parte della comunicazione su me».
È un po’ difficile tenere tutto insieme, Beatrice?
«Nelle mie relazioni precedenti è stato impossibile. Ma ho trovato una persona piena d’entusiasmi, che sostiene la mia crescita. Sto bene».
Come si vede tra vent’anni?
«Mamma, spero. Direttore d’orchestra, ma non solo. Amo la divulgazione, mi sono lanciata sul palco di Sanremo, sono curiosa e aperta».
Anche a una conduzione televisiva?
«Certo. Ovviamente d’un programma legato al mio lavoro».