Specchio, 9 maggio 2021
Storia dell’omicidio di Giuseppe Ruggieri
Il fine era il castigo, la punizione raggiungere così un inatteso stato di pace. In fondo all’anima, l’agricoltore Giuseppe Ruggieri aveva subito un’umiliazione troppo lacerante per ritenere di lasciare inascoltato quel desiderio ossessivo di pareggiare i conti. Era stato licenziato dall’azienda agricola Monte Cecubi, dov’era impiegato da trattorista stagionale, nelle campagne tra Itri e Sperlonga. Voleva quindi infliggere, come sussurrava minaccioso al collega Sergio, il "paliatone", una lezione all’enologo Ulrico Cappia, romano di nascita ma trevigiano d’adozione (si era professionalmente formato a Conegliano), il dirigente che riteneva colpevole di averlo messo alla porta. In realtà per il licenziamento, se c’era un colpevole, quello era nessun altro che lo stesso Ruggieri. Il suo atteggiamento scostante sul lavoro, rissoso con i colleghi, incurante delle disposizioni minime in fattoria, a iniziare dal divieto di utilizzare i beni aziendali per questioni personali, aveva fatto precipitare il clima agreste di quella piccola comunità agricola in odio, tensione, paura. Si era passati dall’amore per i vitigni, i carciofi e gli asparagi selvatici, all’ansia per cattiverie e ritorsioni.
Dagli studi di Cappia sulle uve Falanghina e quei nomi dell’antica Grecia da dare ai vini, come ad esempio Thymos, "che rappresentava il principio della vitalità – si legge sul sito - ed era il luogo delle forti passioni: proprio come i nostri vini," alla lucida follia di quest’uomo arrabbiato con il mondo. "Non voleva ordini da Cappia - ricordano i dipendenti - e faceva di testa sua, non voleva essere comandato e la vittima era stufa di questo atteggiamento… per il bene dell’azienda uno dei due doveva andare via altrimenti prima o poi si sarebbero azzuffati". È andata peggio.
Ruggieri prima si era accanito sulle auto, danneggiando quelle di Cappia, quella dell’ignaro Salvatore, colpevole di aver preso il suo posto, e anche quella di Antonio, collega con il quale aveva avuto una discussione. Il disturbo di personalità di tipo antisociale dell’operaio non aveva trovato comunque ristoro in questi danneggiamenti, nel tagliare le gomme di tutte le ruote, nei dispetti, nelle rappresaglie inflitte. Anzi, appena terminava un supplizio verso il superiore, cresceva già la bramosia di organizzarne altri. "La figura che ha migliori probabilità di diventare particolarmente persecutoria – sintetizzava già lo psichiatra Charles W. Socarides – è una figura superegoica sulla quale sia stata proiettata una grossa quota di invidia". La vendetta era quindi divenuta ormai l’alveo di ogni entusiasmo, ogni ragione violenta di vita, per sfociare in una resa dei conti conclusiva, devastante, di gran lunga superiore a quanto patito: un omicidio.
Il piano viene così studiato in ogni dettaglio. Prima Ruggieri, con apparente disinteresse, aveva rivolto alcune domande in segreteria per conoscere le abitudini del responsabile, capire come raggiungeva e si allontanava dall’azienda, e soprattutto a quali orari lasciava il lavoro. Era così venuto a sapere che Cappia voleva sempre essere l’ultimo ad andarsene, anche a ora tarda. Un particolare che portò Ruggieri a scegliere l’unico luogo idoneo per l’agguato: la sbarra in fondo al viale d’uscita dell’azienda. Tra l’altro, l’uomo possedeva copia delle chiavi del lucchetto e quindi poteva abbassare la sbarra in modo da costringere l’enologo a scendere dall’auto per transitare. Così, verso le 20, raggiunse il posto, mettendosi in attesa. Aveva predisposto tutto dalla vigilia, quando erano state raccolte alcune grosse pietre poste alle intersezioni della stessa strada, in modo che solo l’auto di Cappia potesse raggiungere il luogo scelto da Ruggieri per entrare in azione. Si trattava solo di aspettare.
In quei minuti, a poca distanza, Cappia era tranquillo ancora in ufficio, stava finendo le ultime operazioni commerciali e riordinare le sue cose. Alle 20.30, in cassa, emise lo scontrino finale di saldo per poi avviarsi verso l’auto e percorrere come ogni sera la stradina che portava alla sbarra. Trovandola chiusa, senza sospetti, l’enologo fermò la 500L e scese per andare a sollevarla. Ma Ruggiero era in agguato, spuntando all’improvviso dai cespugli: con una pistola calibro 7.65 in pugno, si mise a minacciare l’ex datore di lavoro, intimandogli di spostarsi sul sedile anteriore del passeggero per mettersi alla guida dell’utilitaria e raggiungere un luogo più appartato. Era l’atteso regolamento dei conti, quel paliatone tanto annunciato. Il trattorista, livido di rabbia, con la vittima aveva quindi raggiunto una radura in località Porcignano, poco distante dalla provinciale che unisce Itri a Sperlonga. Cosa si siano detti i due non è noto, ma è facile immaginare come il trattorista abbia accusato l’enologo di ogni male e come questi abbia tentato fino all’ultimo di chiedere perdono, dissuaderlo, trovare un punto di equilibrio. Ormai, era troppo tardi. Ruggieri si volta e a bruciapelo spara quattro colpi di pistola al torace e uno alla nuca. L’enologo muore sul colpo. A questo punto, decide di incendiare l’utilitaria per cancellare ogni traccia e darsi alla fuga. Dopo 15 minuti, verso le 22, ritorna serafico in centro a Itri per farsi vedere e costituirsi così un alibi.
Le fiamme sprigionate dall’auto bruciata, vicino alle vigne, fecero subito scattare l’allarme. I carabinieri ritrovano il corpo carbonizzato. Nella notte partono subito le indagini, affidate al nucleo investigativo provinciale e alla compagnia dei carabinieri di Gaeta, con il supporto del Racis e del Ros di Roma dell’Arma. Gli inquirenti ascoltano amici e dipendenti, e Ruggieri diventa l’indiziato numero uno. A incastrarlo è stata decisiva la cosiddetta prova dello stub, dalla quale è risultata la presenza sui capelli, sul viso e sulla mano destra di Ruggieri, nonchè sul volante e sulla leva del cambio della sua autovettura, di particelle di bario, piombo e antimonio e, dunque, di residui di polvere da sparo.
Per evitare la pena massima, i difensori dell’assassino hanno provato a minare quest’esame, sostenendo che quelle particelle non derivavano dall’omicidio, ma dal fatto che, prima di effettuare lo stub, l’indagato era salito su un’auto dei carabinieri, poi era stato in attesa in caserma, assorbendo evidentemente in quei luoghi, frequentati da persone armate, quei residui. La scienza doveva dare una risposta e per questo i giudici d’Appello disposero una perizia che però fu assai netta nelle conclusioni: "La probabilità che le particelle presenti sul volto e sui capelli dell’imputato potessero derivare da ‘inquinamento innocente’, pur non escludibile in termini assoluti, doveva ritenersi ‘praticamente inesistente’".
Ma l’avvocato Angelo Francesco Palmieri non si perdette d’animo e così rilanciò la tesi portata anche in Cassazione, aggiungendo che l’imputato, "raccogliendo abitualmente bossoli di cartucce da caccia, e lavorando come parcheggiatore in un’area privata dove giornalmente affluisce una notevole quantita?di autocarri e autoarticolati, potrebbe essere stato contaminato sia dai bossoli, sia dai sistemi frenanti dei predetti mezzi, i quali contengono piombo, antimonio e bario, ovvero le particelle tipiche dei residui di polvere da sparo". Ma anche i giudici con l’ermellino ritennero nulle le lamentate contaminazioni, rispetto agli indizi convergenti raccolti.
Un’altra carta giocata dalla difesa è stata quella della semi infermità mentale. Ruggieri, ipovedente da un occhio, rancoroso e dalla personalità fragile non avrebbe avuto piena consapevolezza durante l’omicidio. Per questo i giudici di secondo grado diedero incarico al professor Marasco di studiare la personalità dell’assassino e rispondere all’interrogativo centrale: l’imputato è sano di mente? Emerse un quadro inquietante di un uomo sicuramente disturbato. "Tale stato – si legge nelle motivazioni della Cassazione -, pur astrattamente riconducibile alla nozione di infermità penalisticamente rilevante, non aveva in alcun modo interferito con la sfera volitiva e cognitiva del soggetto, tenuto conto delle modalità esecutive dell’omicidio, connotato da ‘caratteristiche di lucidità mentale, preparazione e meticolosità’ e, come tale, estraneo a una situazione di ‘disgregazione dello psichismo’. Circostanze, quelle da ultimo indicate, che rendevano irrilevante l’astratta idoneità delle lesioni al lobo frontale di sinistra a determinare un discontrollo degli impulsi.
E bisogna tenere conto, appunto, della fredda e lucida determinazione mostrata nell’attuazione del proposito di vendetta, cui erano certamente estranei profili di incapacità nel controllo dei propri atti". Ergastolo dunque per l’omicidio volontario di Cappia e per averne distrutto il corpo, dato barbaramente alle fiamme nella sua auto. Una sentenza pronunciata nel 2015 dalla corte d’Assise di Latina e confermata poi in Cassazione con presidente Angela Tardio il 27 marzo del 2018.
Da quel giorno, in realtà, Ruggieri sconterà solo poco più di due mesi di carcere: il 5 giugno le guardie penitenziarie lo trovano privo di vita nella sua cella. Un infarto fulminante e su questa storia cala il sipario per sempre.