la Repubblica, 9 maggio 2021
Priebke alla sbarra, 25 anni fa
Venticinque anni fa, l’8 maggio del 1996 si apriva a Roma, di fronte a un tribunale militare, il processo nei confronti di Erich Priebke, ex capitano delle SS corresponsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Il massacro nazista di 335 innocenti trucidati, il 24 marzo del 1944, nel segreto di una cava alle porte di Roma, come rappresaglia per l’attacco partigiano in via Rasella a una compagnia di un reggimento di SS sudtirolesi. Quel processo, la storia dell’uomo che ne fu il protagonista, il suo destino, da vivo e da morto, hanno segnato profondamente la coscienza e la storia dell’Italia repubblicana. Priebke, scoperto nel 1994 da un cronista della tv americana Abc ai piedi delle Ande e qui poi intervistato da Repubblica, non avrebbe mai rinnegato, né espresso pentimento per la partecipazione alla strage, diventando un simulacro di fede nazista scaduta e tuttavia pronta a riaccendersi in fiammate residuali. Ma Priebke sarebbe stato anche la prima e ultima Norimberga di un Paese, il nostro, che a differenza della Germania non aveva conosciuto nel primo dopoguerra un processo di denazificazione e defascistizzazione. Questo spiegherà le convulsioni di quel giudizio in cui gli effetti del primo verdetto di assoluzione saranno annullati con un provvedimento di legge di segno opposto e contrario in una notte di agosto che l’Italia non dimenticherà. Sulla spinta di un sentimento e della memoria di una comunità, quella ebraica, che costringerà l’applicazione della legge a ricomporsi con la forza della memoria. Rinnovando così il monito di Primo Levi: conoscere per non dimenticare, comprendere affinché mai più si ripeta.
La biografia di Erich Priebke è lunga cento anni, perché un secolo è durata la vita di questo militare dell’esercito tedesco, criminale di guerra per responsabilità riconosciuta negli eccidi della Seconda guerra mondiale perpetuati nella città di Roma. Era nato nel 1913 a Hennigsdolf, piccolo centro prussiano a nord ovest di Berlino. Rimasto orfano molto presto, cresciuto da uno zio, lavora da cameriere vagando per l’Europa (Berlino, Londra, San Remo) prima di aderire al Partito nazional socialista dei lavoratori tedeschi. Un’adesione nel 1933, l’anno cruciale dell’incendio del Reichstag, della presa del potere di Hitler e del salto di qualità nella progressiva nazificazione della società tedesca. Convinto sostenitore della nuova Germania, si iscrive alla Gestapo, la polizia segreta del Terzo Reich. Lo scoppio del conflitto si avvicina inesorabile, l’aggressione della Polonia è alle porte. La figura del giovane Priebke scompare, s’inabissa per tornare qualche tempo dopo, legandosi indissolubilmente al massacro delle Fosse Ardeatine.
Dopo la svolta dell’8 settembre 1943, ha inizio l’occupazione nazista, l’inverno più lungo per la città di Roma. Il nastro da riavvolgere porta lontano, nel cuore della Seconda guerra mondiale. Era lui, impeccabile con la divisa tirata a lucido, nel pomeriggio assolato del 24 marzo 1944 a chiamare i condannati a gruppi di cinque. Gridava i nomi in un italiano sicuro e con meticolosa attenzione segnava a matita una crocetta per quelli che erano scesi verso l’interno delle grotte, incontro alla morte. Una lunga chiama preludio a un massacro efferato.
La sua voce era l’ultima cosa che i prigionieri ascoltavano, mentre la lista dei 335 caduti si completava di nomi e storie così diverse: generali e straccivendoli, operai e intellettuali, commercianti e artigiani, un prete e 75 ebrei; monarchici e azionisti, liberali e comunisti, e tanti aggiunti alla rinfusa, per raggiungere il numero stabilito confutando così la logica terribile della rappresaglia in stile nazista. Il giorno precedente un attacco partigiano in via Rasella aveva colpito l’undicesima Compagnia del terzo Battaglione dello SS Polizei Regiment Bozen causando 33 morti. Uno per dieci era la ferrea logica dell’occupante. Per un tedesco caduto sarebbero passati per le armi dieci italiani, oppositori delle leggi di guerra del Terzo Reich.
In anni successivi, il nesso tra l’azione partigiana e la rappresaglia nazista viene proposto come paradigma di lettura sulla Resistenza e i suoi errori. Si arrivò perfino a sostenere che sui muri di Roma fossero comparsi manifesti che chiedevano ai partigiani di consegnarsi preventivamente alle autorità naziste. Con fatica e tenacia la verità si è fatta strada, la logica degli eventi ha prevalso nelle ricostruzioni della storiografia più qualificata e nelle aule di giustizia che hanno affrontato la vicenda. Con la necessaria distinzione tra il giudice e lo storico da più parti è stato affermato che la ritorsione delle Ardeatine fu condotta rapidamente e in segreto. Ebbe inizio ventidue ore dopo l’attentato e nessuno seppe nulla, tranne i protagonisti coinvolti: esecutori, mandanti e condannati a morte. Il 25 marzo verso mezzogiorno (quando uscivano i quotidiani in tempo di coprifuoco) un comunicato dell’agenzia di stampa ufficiale Stefani annunciò che «Il comando tedesco ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani siano fucilati». E con lapidaria precisione concludeva: “Quest’ordine è già stato eseguito” (Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, 1999).
La notizia fa il giro della città a cose fatte. Priebke sa tutto, conosce i dettagli, è a Roma da tempo, ben prima dell’8 settembre del ’43, sembra che abbia iniziato come attaché di polizia e interprete nelle missioni romane del Fuhrer.
Con l’ordine eseguito alle spalle, a guerra conclusa si rifugia in Argentina, a San Carlos di Bariloche, sotto l’ombra delle Ande. Una vita in disparte con moglie e figli fino a quando – il 6 maggio 1994 – un cronista della rete televisiva statunitense non lo scova a seguito di una soffiata del centro Simon Wiesenthal di Los Angeles. Il giornalista Sam Donaldson lo segue e lo incalza, gli chiede delle sue giornate romane, di un massacro lontano, lo accusa di essere un criminale di guerra. Priebke nega, poi ammette di aver eseguito degli ordini «contro chi meritava la morte».
L’Abc News non è la sola a raggiungere Bariloche. Bariloche era distante: duemila chilometri da Buenos Aires, venti ore di treno, ventidue di pullman, quattro ore di strada di montagna dalla città più vicina. Un posto di confine, con varie vie di fuga. «La Svizzera delle Ande», per le agenzie turistiche. Erico Priebke, come si faceva chiamare, era sull’elenco telefonico. Abitava in via 24 Settembre, al numero 167, all’ultimo piano (quarto) di una palazzina che aveva affittato a una casa di cura. Rispose al campanello: «Italiana? Ah entri, quanti ricordi». La sua casa: tre stanzette modeste, un vecchio divano, nulla di lussuoso. Erico aveva 81 anni, era alto, camminava ancora dritto. Sua moglie Alicia, 82 anni, occhi azzurri anche lei, invece si era incurvata, sotto una cascata di capelli bianchi. A Bariloche stavano bene: tetti d’ardesia, chalet con i gerani, salumerie con specialità tedesche in vetrina, birrerie dal nome Vecchia Monaco, cioccolato e apfelstrudel, edicole con dei giornali di Francoforte. E soprattutto vecchi camerati che non si pentivano. A Priebke piaceva parlare di Badoglio, del duce, si vantava di aver aiutato Skorzeny a liberare Mussolini a Campo Imperatore, di aver messo in contatto nell’agosto del ’43 Edda e Galeazzo Ciano con Hitler. Anzi, lui al Führer aveva anche fatto da traduttore a Roma. «Ho bellissimi ricordi della città e soprattutto di un ristorante con terrazza al Foro dove a noi ufficiali ci trattavano benissimo. Il vino rosso era ottimo». Per lui, Roma era una cena con vista. Repubblica per caso aveva la sede da quelle parti? E al reporter americano non aveva mica negato di essere Priebke. «Non mi sono mai nascosto, ho sempre viaggiato con il mio nome, a Berlino e per turismo in Italia. Ho anche provato a chiedere un incontro con Herbert Kappler nel carcere di Gaeta, ma senza fortuna, e quando andai a trovarlo a casa la moglie mi disse che era appena morto».
Dopo la guerra si era nascosto al nord. «Nel ’48 un padre francescano mi disse: per la Germania non posso fare niente, ma se vi accontentate dell’Argentina posso aiutarvi. Accettai. Ero a Vipiteno dove sotto falso nome mi ero rifugiato con moglie e due figli piccoli». Era partito da Genova con una nave italiana, ma prima era stato ribattezzato. «Vendemmo tutta la nostra roba per pagare i biglietti, ma non potevo usare la mia identità, così chiesi al Vaticano, che mi diede una mano tramite il vescovo austriaco Alois Hudal mentre prima era stato padre Pfeiffer, tedesco, ad aiutarmi, lo conoscevo perché a Roma si era molto adoperato per chiedere clemenza per i prigionieri. Il mio nuovo passaporto era bianco con le insegne della Croce Rossa, però bisogna dire che il Vaticano aiutava tutti, anche gli ebrei, non solo noi tedeschi». Arrivò il momento della domanda sulle Fosse Ardeatine: potevamo chiedere? «Ma certo, querida». Aveva sparato? «Certo, ma non ricordo con precisione. Una di sicuro, forse due, anche tre. Ma che importanza aveva? Ero un ufficiale, mica un contabile. E quello era un ordine. Kappler da inflessibile costrinse anche il cuciniere a fare fuoco. Fucilammo cinque uomini in più. Uno sbaglio, ma tanto erano tutti terroristi». No, non lo erano. Il giornalista della tv argentina, appena arrivato, gli chiese se poteva mimare il colpo della pistola. Nessuna timidezza, fece quel gesto, con il braccio piegato all’ingiù, ma non capiva: perché interessava tanto? Lui aveva solo eseguito un ordine. «Non erano nemmeno nostri i soldati morti in via Rasella, ma del Sudtirolo, più italiani che tedeschi». Erich Priebke non aveva cambiato idea, né chiesto scusa del suo terribile passato.Il ministro della giustizia Alfredo Biondi, guardasigilli nel governo di Silvio Berlusconi, chiede l’immediata estradizione di Priebke. Mentre stava cercando degli atti sul processo a Kappler – svoltosi a Roma nel 1948, Kappler venne condannato all’ergastolo, altri cinque gerarchi prosciolti per supportare giuridicamente la richiesta di estradizione, Antonio Intelisano, procuratore militare, aveva trovato, nascosti in un mobile a palazzo Cesi, un immobile cinquecentesco in via degli Acquasparta, allora sede della procura generale militare, 695 fascicoli aperti nel dopoguerra nei confronti dei vari gerarchi nazisti. Giacevano lì dimenticati da tempo, stipati dentro quello che verrà definito come “l’armadio della vergogna”. In 415 fascicoli erano riportati i nomi dei colpevoli. Nel fascicolo sulle Fosse Ardeatine c’era anche il nome di Priebke, che un cancelliere frettoloso aveva trascritto come Priek. «Grazie a quell’armadio – scrive Franco Giustolisi ne L’armadio della vergogna – si è goduto cinquant’anni di libertà». La Corte suprema argentina concede l’estradizione il 2 novembre 1995.
Il processo sulle Fosse Ardeatine si apre a Roma l’8 maggio 1996. Priebke ha 83 anni. Sono passati 52 anni dall’eccidio simbolo della ferocia dell’occupazione nazifascista a Roma ed è chiamato a rispondere per concorso in violenza con omicidio continuato. Impassibile, silenzioso, assiste disciplinato a tutte le udienze, tranne una, il 18 luglio, quando si sottopone a una visita medica. Ogni mattina, davanti all’ingresso del tribunale militare, Settimio Di Porto, 71 anni, titolare di una valigeria a Porta San Paolo, si presenta con un cartello: “Voglio che ci sia giustizia”, vi è scritto. È talmente assiduo, che una mattina, quando si presenta in ritardo, il maresciallo lo accoglierà con un«A’ Di Porto, e ‘ndo te eri cacciato oggi?». È figlio di deportati ad Auschwitz: il padre Giuseppe Di Porto, a 18 anni, la mamma, Marisa, ne aveva quattordici. Suo nonno, il pasticcere Giacomo Di Porto, era uno delle 335 vittime alle Fosse Ardeatine. «Andavo lì per dare voce a mia madre che non ne aveva mai voluto parlare. Abbiamo avuto un’infanzia stupenda, e quando mio fratello gli chiese cos’era quel numero tatuato sul braccio mio padre rispose che era il numero di telefono».
Anche Riccardo Pacifici, 57 anni, già guida della comunità ebraica di Roma, ricorda la rimozione di una memoria ritenuta troppo dolorosa. «Nessuno ne voleva parlare. Ricordo che quando per la prima volta, nell’estate del 1990, organizzammo il primo viaggio in un campo di concentramento, a Birkenau, alcuni sopravvissuti si rifiutarono di partecipare: “Non ce la sentiamo”, spiegarono».
Il pm del processo, Antonio Intelisano, oggi ha 78 anni. Seduto nel salotto della sua casa a Roma, parla in modo preciso del dibattimento. Fu lui araggiungere Priebke a Bariloche, dopo l’arresto delle autorità argentine, nell’agosto del 1995. «Quando me lo trovai davanti mi ricordò la banalità del male descritta da Hannah Arendt su Eichmann. Gli argentini superarono il divieto di estradizione e alla fine Priebke venne mandato in Italia». Sin da subito in tanti in aula protestano per il comportamento tenuto dal presidente Quistelli, che minimizza l’importanza delle testimonianze. Le parti civili e Intelisano ne chiedono circa un centinaio. Il tribunale ne ammette una decina per le parti civili, altrettanti per l’accusa, quattro per la difesa. Alcuni dei partigiani che erano stati torturati nella sede dellaSicherheitspolizei, la polizia di sicurezza dalla quale dipendeva la Gestapo, in via Tasso, erano ancora vivi. Due di loro, Felice Napoli e Riccardo Mancini, racconteranno di essere stati torturati direttamente da Priebke, nei primi mesi del 1944. Il 17 giugno Intelisano presenta un’istanza di ricusazione contro Quistelli, e il giudice a latere Rocchi. «Sono venuto a conoscenza sia da articoli di stampa, che dalle affermazioni fatte da qualche avvocato in udienza di una notizia di reato, e di fatti di notevole gravità che presuppongono l’astensione della Corte». «Non era mai successo a memoria di giudice», ricorda adesso Intelisano che un pubblico ministero ricusasse la Corte. Un’analoga ricusazione viene presentata dalla parte civile, Giuseppe Nobili, Quistelli ammetterà di avere detto, nel corso di una conversazione privata avuta tra il novembre e il dicembre 1995 con il generale dei carabinieri Franco Mosetti, che Priebke tuttalpiù sarebbe stato imputabile di omicidio colposo plurimo, reato caduto in prescrizione. La Corte d’appello militare respinge i ricorsi di Intelisano e di Nobili.
Il 1 agosto 1996 è un giovedì. Priebke per tutto il processo ha continuato a prendere appunti su un quaderno, ma per il resto ha taciuto. «Sono preparato al peggio, spero di morire in Paradiso, a Bariloche», ha detto il 22 luglio in un’intervista al quotidiano argentino El Diario del Rio Negro. «Cosa si aspetta dal tribunale?», chiedono a Tullia Zevi, la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. «Che la Corte sia all’altezza della storia». Ricorda Riccardo Pacifici: «Mi recai nel quartiere ebraico e bussai alla porta di Raimondo Di Neris, che tutti conoscevamo come lo zi’ Raimondo, sopravvissuto alla Shoah e famoso nella nostra comunità perché la sera che tornò da Auschwitz volle fare la serenata sotto la finestra della fidanzata che lo aveva aspettato. Quattro giorni prima gli avevo proposto: “Ci mettiamo davanti alla porta del tribunale e quando Erich Priebke esce dall’aula tu gli dai una cinquina, una sberla, in favore di fotografi e telecamere”. “Ci sto”, disse zi’ Raimondo. Quando salì sul mio motorino, al portico di Ottavia, mi confessò che per l’agitazione non chiudeva occhio da quattro notti». Sono le 18,01 quando il presidente Quistelli legge la sentenza, che l’ Ansa sintetizza così: «Il tribunale militare di Roma ha deciso di non doversi procedere contro Priebke, perché gli ha concesso le circostanze attenuanti e quindi il reato è considerato prescritto. Il tribunale, pur riconoscendo le responsabilità dell’imputato, ha prosciolto Priebke, ritenendo di applicare le circostanze attenuanti. Il tribunale ha deciso l’immediata scarcerazione dell’imputato». Priebke ha un ghigno quando l’avvocato glielo comunica. «Fatelo uscire, che ci pensiamo noi», urlano dal corridoio. Alle 21, stufe di aspettare, alcune persone tentano di sfondare il cordone dei carabinieri per raggiungere la stanza di Priebke. In una sera piovosa di aprile, nel suo ufficio a Monteverde, Pacifici tira fuori dalla tasca il cellulare e mostra un vecchio video che circola su Youtube. Lo si vede urlare, pieno di indignazione, quel giorno nel corridoio. «Te venimo a pijà », grida un tale accanto a lui. Una giornalista chiede a un giovane se per caso è lì per lavorare. Risposta: «Sì, signò. Stamo a lavorà per pijallo ». Nel video si vede Pacifici rilasciare una dichiarazione in favore di telecamera: «Il presidente Quistelli molto gentilmente ci ha ricevuti, era presente anche la sottosegretaria dei Verdi, Carla Rocchi, ho chiesto consiglio a Elio Toaff. Mi ha detto: “Agite secondo coscienza"». Ricorda adesso Pacifici: «A un certo punto Quistelli mi volle vedere. Mi chiese di fare sgomberare l’aula. “Non voglio vedere un altro caso Kappler”, gli risposi. “Lei deve accettare la sentenza”, mi disse il giudice. “Mi faccia chiamare il rabbino Elio Toaff, farò quello che mi dirà lui”. Composi il numero di Toaff, lo chiamai su un fisso, era in vacanza all’Isola d’Elba. Toaff era stato un partigiano, e lo chiamai, mettendolo in viva voce. Gli spiegai che se lo avessimo fatto uscire Priebke sarebbe volato in Argentina. “Rimanete lì” disse Toaff. Quistelli sbiancò. Uscii dalla stanza e lo dichiarai davanti alle tv». Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, telefona al ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick: «Hai saputo che hanno occupato il tribunale militare?» Alle 21,30 la piccola folla nel corridoio non ne può più. Un gruppo cerca di forzare il blocco dei carabinieri, per provare a entrare nella stanza dove si trova Priebke. «Era successo – ricorda Pacifici – che erano entrati nel palazzo i senatori verdi guidati da Athos De Luca, e nel varco si erano infilate molte delle persone che erano per strada. È un’onda che sale, raggiunge il primo piano del tribunale. I militari capiscono che Priebke rischia il linciaggio. Sorge un altro scontro con loro». Fuori, nella sera d’estate, ci sono mille persone, sparpagliate lungo viale delle Milizie e nella traversa di via Damiata, dove, molti ragazzi dei centri sociali, vengono guardati a vista da un gran numero di agenti di polizia armati e coperti da caschi integrali. Sopraggiunge in tribunale il ministro Flick, il quale prospetta la soluzione di applicare gli articoli 715 e 716 del codice di procedura penale in materia di estradizione, visto che sussiste una richiesta da parte della Germania. La soluzione quindi sta nella legge. Ne ha già informato al telefono il capo della polizia Ferdinando Masone. Alle due di notte Flick annuncia personalmente alla folla dei manifestanti che Erich Priebke è stato arrestato dalla polizia giudiziaria in via provvisoria e sta per essere portato in un carcere civile. Aggiunge che la misura deve essere convalidata entro 96 ore dal presidente della Corte d’appello e che il ministro deve chiederne il mantenimento entro dieci giorni (cose che avverranno). Annuncia l’immediata comunicazione al governo tedesco e che questo deve formalizzare entro quaranta giorni la sua richiesta d’estradizione. Priebke non può essere scarcerato fino alla pronuncia della Corte d’appello. Le parole del ministro vengono salutate con un applauso. All’indomani Repubblicatitolerà a tutta pagina: “La vergogna Priebke”.
Il 15 ottobre 1996 la Cassazione annullerà la sentenza del tribunale militare, e l ’anno dopo, il 22 luglio 1997, Priebke verrà condannato a 15 anni di carcere. In appello verranno tramutati in un ergastolo, confermato dalla Cassazione il 16 novembre 1998. Priebke morirà a Roma nel 2013, all’età di cento anni.