Il titolo inglese del libro è "The Bird Way", la maniera degli uccelli...
«C’è una via dei mammiferi e una via degli uccelli, profondamente diversi da noi ma altrettanto ingegnosi. La corteccia cerebrale dei mammiferi è immensamente diversa da quella dei volatili. Noi abbiamo i neuroni disposti a strati, come una sorta di lasagna. I loro sono disposti a grappolo, come una sorta di aglio. Studi recenti dimostrano che ci sono, però, similitudini nel percorso compiuto dall’attività elettrica da cui scaturiscono le connessioni, sì, insomma, una sorta di pensiero. The Bird Way è la maniera che hanno gli uccelli di intraprendere i loro percorsi mentali. Che non è unica, anzi, ciascuna specie ha le sue.
Ciascuna, in un certo senso, ha i suoi segreti».
Ci sono, cioè, misteri non ancora svelati?
«Tutto nella loro vita è misterioso e segreto: abbiamo appena iniziato a studiarli davvero e sappiamo davvero poco delle loro dinamiche.
Da dove viene la loro abilità di modulare il canto in relazione al pericolo? E il colore delle piume per meglio sedurre il partner? Hanno pure talenti superiori ai nostri. La capacità di volare, naturalmente.
Uccelli come gli albatri passano ad ali spiegate buona parte della loro vita mentre i falchi sono rapidissimi. Sanno poi orientarsi basandosi solo sulla posizione del sole, i campi magnetici. Hanno, insomma, un’intelligenza specifica che noi non abbiamo ancora decodificato.
Così come non comprendiamo a pieno loro capacità emotive: la capacità di creare legami esclusivi, il dolore che provano quando il partner muore...».
Possono insegnarci qualcosa?
«Innanzi tutto, che non siamo così unici come pensiamo. Gli uccelli sono sofisticati. Si tramandano le loro, chiamiamole così, tradizioni culturali: i versi, l’uso di strumenti.
Alcuni sono incredibilmente collaborativi fra loro. Risolvono i problemi spesso lavorandoci insieme. Ci danno pure lezioni di leadership: penso all’ibis eremita costretto a migrazioni faticose. Vola in formazioni, compie svolte ardite e ha sempre bisogno di un "capitano" alla guida dello stormo.
Mestiere che fanno a turno, per non stancare troppo nessuno e far arrivare tutti alla fine del viaggio».
Cosa l’ha spinta a scrivere di volatili?
«Ho imparato ad amarli da piccola. Mio padre mi portava a fare birdwatching sul fiume Potomac, appena fuori Washington. Siamo 5 sorelle e all’inizio fu un modo per stare sola con lui, guadagnarmi la sua attenzione: avevo 7 anni.
Uscivamo prima dell’alba, andavamo al fiume e ascoltavamo il canto degli uccelli al buio. Mio padre sapeva riconoscerli, glielo aveva insegnato un amico cieco, quando era ancora un ragazzo. Ma solo quando ho intrapreso la carriera di giornalista scientifica ho cominciato a pormi domande su di loro. Come significano i loro versi, come risolvono i loro problemi. E ci sono voluti 10 anni di studi prima di decidermi a scrivere di loro»
Il lockdown determinato dalla pandemia ha fatto riscoprire a molti il loro canto...
«È vero, fino a poco tempo fa ci curavamo poco di loro e invece ora c’è una rinnovata attenzione, un vero boom. L’abbuffata di strumenti elettronici fatta in clausura deve aver stimolato in molti un nuovo desiderio di natura».
Come esseri umani rappresentiamo un pericolo?
«Purtroppo sì. Soprattutto per i migratori. Tutti sanno quanto le luci delle città li disorientano. Ma pure i cambiamenti climatici li mettono in pericolo: l’instabilità delle stagioni, ad esempio, gli impedisce di trovare sul loro rodato percorso il cibo di cui hanno bisogno per sostenersi nel lungo viaggio. Un altro pericolo sono i veleni: quelli per i topi, quelli per le piante».
Qual è la sua specie preferita?
«Ho una particolare passione per la
black-capped chickadee (in italiano la luisa dal cappuccio nero). Un uccello canterino delle foreste della famiglia delle cince. Coraggioso, impertinente, intelligente, ha una capacità comunicativa straordinaria. I suoi versi contengono segnali d’allarme così precisi da poter indicare se un predatore viene da terra o aria e che tipo di pericolo rappresenta. Tutto e solo col numero di deedeedee alla fine del verso. Di recente ho però scoperto i kea, pappagalli della Nuova Zelanda. Giocosi e buffi.
Curiosi esploratori. Li studiano in un centro in Austria: prima di farmi entrare mi hanno fatto levare gioielli, occhiali, tutto. Ma uno è comunque subito venuto da me mordicchiandomi i lacci delle scarpe, i capelli... un vero seduttore».
E i pennuti, cosa pensano di noi?
«Bella domanda. Nessuno lo sa. Ma alcune specie sono capaci di riconoscere e ricordare i nostri volti, associandole a sensazioni positive o negative. Possono costruire relazioni intense con noi, ma anche decidere di voler attaccare chi magari si è avvicinato eccessivamente al loro nido o fa troppo rumore».
Continuerà a studiare gli uccelli? Di cosa parlerà il suo prossimo libro?
«Ho appena completato un saggio sulle migrazioni. Ora vorrei dedicarmi ai gufi, un vero mondo a sé, di cui finora ho scritto poco. Ma il mondo naturale mi interessa nella sua interezza. Più in là intendo dedicarmi agli insetti».