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 2021  maggio 08 Sabato calendario

Intervista a Giuliano Sangiorgi - su "Il tempo di un lento" (Einaudi)

Siede al pianoforte. Canta Non è mai per sempre dei Negramaro. Poi imbraccia la chitarra e attacca una strofa di Attenti al lupo. Infine, ritorna alla tastiera per una versione sontuosa di Chissà se lo sai, carica di tenerezza e di grazia. Un microconcerto solo per noi nello studio domestico, al quinto piano di un palazzo nel quartiere Monti, da dove le crepe della Capitale sono invisibili e Roma è una bellezza da cartolina. "Continuano a chiedermi di fare l’attore e interpretare Dalla sullo schermo", dice Giuliano Sangiorgi, leader dei Negramaro, la band salentina che il 7 ottobre, Covid permettendo, riprenderà finalmente l’attività concertistica nei palazzetti.

Gli hanno chiesto anche di stare dietro la macchina da presa, per portare al cinema Lo spacciatore di carne, il libro d’esordio del 2012. "Non ci si improvvisa registi", taglia dritto. Ha altro per la testa, martedì 11 maggio esce per Einaudi Il tempo di un lento, piccolo romanzo di formazione dentro una storia molto più grande, che in tre episodi transita dal Suditalia degli anni Ottanta, fradici di Festivalbar e Billy Idol e De Andrè e grandi ideali, alla New York contemporanea che ancora incarna il sogno americano, passando per le piccole ma non trascurabili crudeltà di un paesino diventato prigione del diverso (il personaggio del vecchio Gennaro, che lascerà traccia nella letteratura italiana) dove la pietas non è più di casa. Uniche realtà che s’intrecciano con la fiction: la strage del Rapido 904 del 23 dicembre 1984, Miles Davis, il leggendario jazz club Village Vanguard e frammenti dei Negramaro. Il tempo delle mele culmina con una fuitina che la tragedia trasforma in una fuga definitiva: i due protagonisti, Luca e Maria Giulia missing per sempre. O quasi. "Immaginare, per me che scrivo canzoni, è avere i piedi incollati al suolo e le ali sporche di terra", esordisce Sangiorgi, accarezzando i suoi protagonisti come cristalli preziosissimi, con la stessa delicatezza con cui ha maneggiato Chissà se lo sai.

La fuga è sempre un argomento affascinante; il romanzo inizia come una favola antica, finché la scomparsa non diventa devastante per i due adolescenti e per tutti quelli che orbitano intorno a loro.
"Incominciai a scrivere Il tempo di un lento lo stesso giorno che composi Amore che torni per i Negramaro. Ricordo esattamente il momento, sul letto della mia stanza. Era come se già con quel disco stessi creando qualcosa di nuovo. Avvertivo l’urgenza di allargare l’orizzonte, la canzone mi stava dando l’input per abbandonarmi a una storia. Ironia del destino: stiamo parlando degli anni 2017-18, quando non ero ancora genitore; avevo già pubblicato Lo spacciatore di carne, ossessionato com’ero dalle colpe dei padri che ricadono sui figli al punto da condizionarne la vita futura. Stavo metabolizzando la perdita di mio padre (morto a 62 anni nel 2013) e stavo per diventare padre io stesso; questo, inconsapevolmente, mi ha guidato dentro Il tempo di un lento. Insomma, stavo raccontando dal punto di vista di un genitore; quando ho saputo che sarei diventato veramente papà, tutto si era già messo in moto. Volevo estremizzare l’amore folle che rapiva i nostri padri, i protagonisti delle fuitine, quelli che poi ci hanno fatto diventare genitori a cinquant’anni e oltre, una generazione che ha avuto il terrore di procreare. Quei ragazzi che a diciassette anni lasciavano casa erano così pazzi d’amore da stravolgere le loro vite, quelle della famiglia e a volte dell’intera comunità. Non era una moda ma la reazione di una generazione che poi si è rappacificata chissà con quali mostri, trasformando l’Italia in un paese di vecchi; figli della generazione postbellica capaci di amare fino a bruciare, fino al punto di fuggire con un estraneo e stravolgere, da quel punto in poi, la vita di tutti. Gesti di incredibile follia, di amori indicibili, di arroganza e al tempo stesso di una forza e di una personalità di cui oggi non siamo più capaci. Per me è fantastico che si riesca a fare per amore un gesto così eclatante".

L’amore ha smesso di dettare legge?
"C’è da rifletterci. È come se un paio di generazioni si fossero paralizzate di fronte all’amore; per colpa loro, dei protagonisti delle fuitine: devi studiare, devi prenderti il pezzo di carta, per sposarti c’è tempo. Hanno addomesticato l’amore e noi ci siamo lasciati addomesticare. Per questo mi è venuta voglia di raccontare un gesto estremo che ormai è così lontano dalle nostre prospettive da sembrare irreale. La follia d’amore di due quattordicenni caparbi al punto di sfruttare una strage per dileguarsi nel nulla".

È proprio la strage a trasformare la fuitina in fuga.
"La strage è l’occasione presa a volo mentre erano già su un binario folle, quello dell’amore selvaggio, totale. La cosa più pazzesca dell’amore è che metti la tua vita nelle mani di uno sconosciuto, crei una famiglia e ci fai dei figli, un nuovo nucleo di sconosciuti - mi capita di svegliarmi di notte, guardare lei e pensare, cazzo Ilaria (Macchia, scrittrice e sceneggiatrice, la sua compagna, ndr), io non ti conosco! Dietro a una foto mia e di nostra figlia Stella ho scritto, ’Amami anche se non mi conoscì (la canzone dei Negramaro indirizzata ai migranti). Volevo raccontare tutto questo senza freni, quelli che oggi abbiamo tutti; siamo figli dell’amore addomesticato".

Sono gli anni Ottanta la linea di confine? Da lì in poi l’amore ha cambiato forma?
"Sì. Prima l’amore era follia, per realizzarlo era necessario un coraggio che non abbiamo più. Il tempo di un lento rappresenta sia il momento in cui la storia nasce, nel giro di pochi minuti, mentre la puntina graffia Eyes without a face di Billy Idol, sia l’attimo, altrettanto fulminante, in cui i ragazzi concertano la fuga. In quel momento, durante la scrittura, mi sono accorto che brillava da lontano, come un faro, lo sguardo di mio padre".

Gennaro, il padre di Luca, è un personaggio potentissimo, la sua storia entra nel romanzo con una prepotenza e una poesia che stordiscono.
"Non avevo un’idea precisa per scrivere di lui, solo l’atmosfera, una sensazione al petto che non riuscivo a fotografare. Gennaro mi spaventava, l’ho lasciato per ultimo. Dopo Sanremo mi sono chiuso qui in studio e ho scritto di getto tutto il capitolo che lo riguarda. Ce l’avevo davanti, ma avevo paura di sfiorarlo. Un conto era descrivere la nostalgia degli anni Ottanta, camuffare personaggi e ricordi e oggetti, altro era entrare nei panni di quell’uomo e di Luca adulto, emigrato a New York. Ho voluto vivere per un periodo a Manhattan e incontrare persone che avevano attraversato un’esperienza analoga, gente che era andata lì per sognare in grande. Come Luca, che da cameriere diventa chitarrista di Miles Davis. Mi è sempre piaciuto ragionare per capitoli che poi si riuniscono - penso al cinema dei fratelli Coen. In questo romanzo tutto è arrivato per gradi, partendo da quel ragazzino che scrive una canzone e la suona con la chitarra per far innamorare una coetanea".

La scoperta del potere della pop song: la figura di Luca le assomiglia in qualche modo.
"Non esattamente, ci sono dei rumori, degli odori, dei sapori della mia vita. Come in Gennaro ci sono frammenti della generosità di mio padre, quando con quel gesto carico d’orgoglio compra la chitarra a suo figlio. Gli amici di Luca, la musica che ascolta: mentre scrivevo ero accanto a Luca, vivevo la sua vita dentro la mia. Poi, nella seconda parte, ho voluto cambiare il punto di vista, mettendo Luca (adulto, a New York) di fronte a una giornalista che racconta le storie degli immigrati. Infine, nella terza parte, Amore che torni, mi piaceva raccontare la solitudine pasoliniana del vecchio Gennaro, del jazz di Miles Davis, del leggendario Village Vanguard, degli italiani a New York... New York è la terra di mezzo, volevo dipingerla come tutti l’abbiamo immaginata quando il sogno americano era ancora in costruzione".

L’amore assoluto è roba da adolescenti?
"Ne facciamo la conoscenza a quell’età, è qualcosa di celestiale e infernale che ti lascia e riprende - a me dopo Ilaria non è più successo...".

L’età adulta non lascia tempo e spazio per l’amore assoluto, cambiano le priorità, i ritmi, gli spazi. La spavalderia e il coraggio si dissolvono con gli anni, divorati dalle responsabilità e dalla paura.
"Ma l’amore sbaraglia tutto; quando è assoluto non conosce limiti. Mi aspetto grandi cose dalla futura generazione di adolescenti che darà risposte a tutti i venditori ambulanti di sentimenti che hanno inquinato questi anni. Si arrenderanno anche gli influencer. Sarà una reazione violenta come il punk per il rock’n’roll".

Famiglie troppo protettive hanno prodotto generazioni fragili?
"Odio pensare che Stella sia mia figlia. Mi è successo quando è nata. La sera prima ero agitatissimo, mia madre mi diceva, calmati, rilassati. Mi comportavo come se tutto dipendesse da me. Quando è nata Stellina mia non ha pianto, mi ha guardato negli occhi, ha sorriso, il messaggio era - lo giuro - tu hai fatto il tuo, basta, hai dato; non sono tua figlia, sono Stella, questa è la mia strada e tu per caso la stai incrociando; questo è il mio sogno, il mio binario. In quell’istante mi sono ricordato che, per quanto amassi i miei genitori, avevo davanti il mio percorso. Non è egoismo, è il bello di dire, ci sono, questo sono io. Dobbiamo cambiare il punto di vista nel momento stesso in cui i figli nascono, dare un taglio alle nostre vite egoriferite - sono figlio di mia madre, sono padre di mia figlia. Rispettare le persone che ami vuol dire garantire loro spazio vitale. Ognuno è un essere meraviglioso, che si muove su un binario unico. Non c’è una verità assoluta, ci sono punti di vista. Non mi piace chi dice, ah io sono pane al pane, ti dico quello che penso. Fottiti! Dimmi meno di quello che pensi e vivi meglio con me. Non sto inneggiando alle bugie come fonte democratica di salvezza, sto dicendo che la civiltà si basa sul dialogo - e se alla base di tutto non metti l’altro, non lo rispetti. La verità fa male, come diceva la nostra Caterina (Caselli), ma la civiltà fa anche meglio".

Lei, nato nel 1979, gli anni Ottanta li ha appena sfiorati.
"Li ho vissuti grazie ai miei fratelli, Salvatore e Luigi (avvocati, entrambi impegnati nel management dei Negramaro, ndr). È stato Salvatore a iniziarmi ai Cccp e agli U2 di Rattle and Hum. Ero un bambino che a sette anni in casa giocava coi robot e fuori si comportava come un adolescente. Ho attraversato la loro musica come fosse la mia, le loro vite erano la mia vita. Nel romanzo le figure di Luca e Maria Giulia esprimono l’orgoglio di quella generazione; cancellano il passato per ripartire da loro due. L’amore è bello perché ti divide da tutti, è un gesto che prescinde dall’altro, che fai per te stesso".

Il legame tra Luca e suo padre Gennaro va oltre il conflitto generazionale, è istintivo, misterioso, sotterraneo, insondabile. Sono lontanissimi, senza la certezza di sapersi vivi, eppure legati in maniera ineluttabile e indissolubile.
"Penso che la cosa più bella delle origini sia... dimenticarle. Le radici affondano nella terra, non riesci a sondarne la profondità. Ci sono certe cose da cui non fuggi, lo racconto bene nello Spacciatore di carne, ma pensare che la famiglia sia sempre da difendere fa danni irreparabili - vedi Grillo. È un principio mafioso. È il singolo che mi affascina, la diversità dei consanguinei. Credo che mio padre, siciliano cresciuto a Lecce, la pensasse come me, anche se per i figli avrebbe fatto qualsiasi cosa. La famiglia non è un dato di fatto, è una conquista; guadagnarsi tutto quel che c’è intorno all’amore è la prima guerra da vincere".

L’ha sfiorata l’idea che suo padre avrebbe potuto reagire come Gennaro se lei fosse sparito come Luca?
"È un dilemma che mi tormenta fin dal primo romanzo. Sarei in grado di riconoscere mia figlia tra miliardi di persone dopo quarant’anni di assenza, magari solo dallo sguardo? Mi affascina l’idea che possa accadere; sono ossessionato dagli occhi delle persone - con le mascherine sono tutti bellissimi. Gennaro ha scelto di non morire, di credere, di vivere in una dimensione parallela illuminata dalla speranza - fino alla solitudine estrema, alla follia".

Lei lo ha vissuto così l’amore?
"
Mia madre racconta che all’asilo ero già fidanzato. Quel che ricordo è che volevo innamorarmi, volevo essere grande subito, proprio come Luca. Mia figlia Stella, che ha due anni e mezzo, è innamorata di Elia, che ne ha sette. L’altro giorno ho scoperto che gli diceva di avere quattro anni. Ho riconosciuto la voglia che avevo io di bruciare le tappe, la stessa curiosità. Non vuoi sentirti più grande o più vecchio, vuoi provare tutto. Ancora oggi, se non mi sento bruciare dentro non sono vivo - anche in amore".