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 2021  maggio 08 Sabato calendario

Ritratto di Alfonsina Strada

Alfonsina, come folgorata, aveva preso un appunto sul suo quaderno da sarta, vicino alle misure per i pantaloni di un cliente: «bicicletta, 1901». Il padre era tornato con il vecchio catorcio del dottore, barattato in cambio di due galline moribonde. Lei aveva 10 anni e non aveva mai visto niente di più bello lì a Fossamarcia: gelo d’inverno, caldo opprimente e zanzare d’estate, una casa misera, l’ennesima del girovagare della famiglia nella bassa Padana alla ricerca di terre meno aride da coltivare. Povere mura in cui vivere stipati genitori e figli, un letto per i maschi e uno per le femmine, a dormire testa piedi in un «coro notturno di scorregge odorose di cavolo, l’unica cosa che abbondava nei campi». Eppure da lì lei avrebbe sfidato il mondo e un ambiente sportivo retrogrado e maschilista, sarebbe diventata «la regina della pedivella».
In Alfonsina e la strada Simona Baldelli racconta, tra vero e verosimile, la vita di Alfonsa Rosa Maria Morini, coniugata Strada (un cognome, un destino) pioniera del ciclismo femminile, prima donna a competere al Giro di Lombardia e al Giro d’Italia.
Dalle fughe notturne clandestine per imparare a pedalare fra rovinose cadute e brividi di eccitazione; al lavoro in una sartoria di Bologna, unica scusa per costringere il padre a prestarle la bici e provare il gusto di percorrere chilometri uscendo da quel suo orizzonte stretto, la pausa pranzo a sgommare fra la polvere della Montagnola; alle prime gare in incognito, facendo finta di andare alla messa della domenica; fino alla sfida costante, alla consuetudine, ai regolamenti, alla chiesa, al senso del pudore, agli insulti. «La matta», il meno peggio che la accompagnerà per sempre, «Mal eduche’», «diavolo in gonnella» «logia», vacca, «baghéna». Una donna in bicicletta che faceva paura.
Lei invece di paura non ne aveva mai avuta. Non dei fantasmi che la notte venivano a visitarla, «i morticini» li chiamava, i suoi fratelli e tutti i bambini presi in affido dal padre bracciante e dalla madre casalinga in cambio del sussidio, morti troppo presto, consunti dalla tubercolosi, dalla pellagra, dal tifo. Con le tenebre si affollavano intorno al suo letto, unici confidenti cui raccontare le nuove proibite imprese. Non aveva avuto timore delle discese con i freni rotti, del sangue e delle croste, dei maschi che la guardavano male ogni volta che si presentava a una partenza, con i pantaloncini corti a scoprire le gambe e i capelli sforbiciati nascosti sotto il berretto. Non aveva fatto un passo indietro nemmeno di fronte al disprezzo del padre e dei fratelli: aveva capito presto che il «voler bene», così come l’orgoglio e il tempo per piangere erano «un lusso per signori».
Dai pochi documenti d’epoca la Baldelli ha tratto i punti fermi. La prima vittoria a Reggio Emilia, per premio un maialino vivo. Il matrimonio a 14 anni e il trasferimento a Torino (dove era nata l’Unione Velocipedistica Italiana), con Luigi Strada, meccanico e sognatore, suo primo tifoso e manager che per le nozze le regala una Maino da corsa. Finirà i suoi giorni in manicomio, senza mai smettere di ripeterle «come sei bella sulla bicicletta Fonsina, non scendere mai». E poi la partecipazione al Grand Prix di Pietroburgo nel 1909; l’ambizione di andare oltre le gare nei velodromi e fare il grande salto; l’iscrizione, dopo aver convinto il direttore della Gazzetta dello Sport, a due Giri di Lombardia e, finalmente, al Giro d’Italia nel 1924. Mancavano i grandi quell’anno, che pretendevano compensi troppo esosi per partecipare, serviva un’attrazione, qualcosa che facesse parlare della competizione e vendere il giornale: Alfonsina. E lei in qualche modo, fra incidenti, vesciche e carne viva, manubri sostituiti con manici di scopa, copertoni rammendati in maniera certosina, squalifiche, sarà fra i trenta corridori, su novanta partiti da Milano, a completare il tragitto. Avvincente il racconto di quelle tappe, portate a termine in condizioni terribili, fra il sostegno crescente della gente. Pare di sentirla tutta la fatica, l’ostinazione.
Di certo ci sono i record battuti e le esibizioni nei circhi di mezza Europa, sui rulli o sulla ruota della morte, con una scimmia in spalla; il secondo matrimonio con Carlo Messori, ex corridore insieme a cui aprirà un negozio di bici con officina; i riconoscimenti di Gabriele D’Annunzio e dello zar Nicola II, la medaglia, mai ritirata, che avrebbe voluto darle Mussolini. Sullo sfondo della vita di Alfonsina Strada, come in un film, (lei che pensava che per il personaggio di Totò in Miracolo a Milano De Sica e Zavattini si fossero ispirati alla sua vita) scorrono la Prima Guerra Mondiale, che aveva cancellato quasi tutte le competizioni, e la disfatta di Caporetto, gli incontri con i miti Girardengo e Coppi.
Quella di Alfonsina Strada è una storia di sport e determinazione, di lotta contro i pregiudizi, per l’uguaglianza e il rispetto, per il diritto a fare ciò che ci rende felici. Una storia di disobbedienza imparata sulle due ruote. Da leggere ora più che mai. —