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 2021  maggio 08 Sabato calendario

Intervista a Kerstin Cantz


«Sono una bambina degli Anni Sessanta. Chiudo gli occhi e vedo immagini in bianco e nero. Ricordi, odori, sensazioni, più mi ci immergo, più mi sento avvolta in una coltre profonda e familiare di tensione e depressione». Intensa, precisa, discreta, Kerstin Cantz è allenata a lasciar parlare i fatti: nata a Potsdam nel 1958, è stata a lungo giornalista, anche televisiva, perfetta incarnazione del precetto anglosassone «show, don’t tell». Il suo primo romanzo, L’ostetrica, ambientato nella Prussia ottocentesca, è uscito nel 2005 e ha avuto immediato successo, diventando anche un film. Oggi con La signorina Zeisig e il caso della bambina scalza, si sposta nella Monaco del 1962, tra le prime avvisaglie del boom economico e l’ombra scura del passato nazista. In polizia ci sono più cavalli che donne, ma Elke Zeisig riesce a entrare nella sezione femminile, che di solito si limita a collaborare con i servizi sociali. «Elke è una ragazza con una missione, scoprire segreti – dice Cantz –. Quelli nascosti dietro ai delitti quotidiani, ma anche quelli che pervadono in modo strisciante il suo mondo, la rimozione collettiva dei crimini di guerra».
Più facile scrivere del passato lontano o di quello che si è vissuto direttamente?
«Beh, per scrivere del passato lontano non puoi fidarti della memoria, dell’esperienza. Devi fare molta più ricerca. Mi sono immersa nell’Ottocento leggendo biografie e lettere, visitando mostre di quadri e ascoltando i compositori dell’epoca, studiando i costumi popolari. Anche per scrivere “si lavava i capelli”, mi chiedevo come si lavasse i capelli una donna nel 1801 e se una contadina usasse qualcosa di diverso da una nobildonna. È quasi diventata una dipendenza, scoprire tutto nel modo più preciso possibile, per poter sviluppare empatia nei confronti dei personaggi. Mentre scrivevo del 1962, invece, mi è immediatamente tornato tutto in mente, immagini, rumori, atmosfere. Certo coinvolge di più emotivamente, è più doloroso».
Cosa c’è di tanto doloroso in Monaco 1962?
«È un momento chiave: per la prima volta si scontrano la generazione dei padri che hanno fatto la guerra e la vogliono rimuovere sotto un’apparenza di ordine e perbenismo, e quella dei figli che non ce la fanno più a vivere in quell’atmosfera soffocante e repressiva. Vogliono libertà, musica americana e divertimento sfrenato, ma anche risposte alle domande sul ruolo dei loro genitori nel Terzo Reich. Nelle famiglie tedesche Anni Sessanta domina un silenzio assordante sull’Olocausto e il nazismo. Le rivolte di Schwabing sono un sintomo dell’umore dei giovani dell’epoca».
Non sono avvenimenti molto noti in Italia. E in Germania?
«Nemmeno: persino molti abitanti di Monaco non ne hanno mai sentito parlare oppure spesso le confondono con i disordini studenteschi del 1968. Le rivolte del giugno 1962 sono iniziate in modo abbastanza innocuo con un paio di ragazzi che cantavano di notte ad alta voce alla chitarra in Leopoldstrasse, il posto “cool” del momento. Bar e ristoranti, jazz club e gelaterie erano pieni, stava per iniziare l’estate, l’atmosfera era vivace. Ma alcuni residenti disturbati dal rumore hanno chiamato la polizia e quando due agenti hanno cercato di rimuovere i ragazzi, la situazione è precipitata: la scintilla si è trasformata in un incendio, è arrivata un’intera task force di polizia con cui i giovani si sono scontrati in un corpo a corpo durato cinque notti, così brutale che persino la prudente opinione pubblica di Monaco si è indignata. Per la cultura giovanile è stata la prima grande scossa».
La guerra è ancora molto presente nella vita di tutti i personaggi, come se fosse appena finita.
«Era così. Io stessa sono cresciuta con i racconti di guerra di mia madre, che bambina, sentisse le bombe cadere su Berlino nel rifugio antiaereo. Avevo spesso incubi che la guerra sarebbe scoppiata. La violenza, la distruzione e le atrocità della Seconda guerra mondiale hanno colpito anche la generazione successiva, perché è stata allevata da persone traumatizzate. In realtà è proprio mentre scrivevo il libro che sono diventata davvero consapevole di quanto all’inizio degli Anni 60 gran parte della società fosse ancora plasmata dalla guerra e dalle esperienze di violenza. Malgrado ciò, non tutti (anche se forse più di quanti pensiamo) sono diventati criminali violenti».
La violenza è contagiosa? Come se vivere in un mondo feroce annullasse i freni inibitori?
«Possibile. Lo provano molte ricerche scientifiche. Penso che la capacità di reagire con violenza in una situazione dipenda da molti fattori diversi: dalla natura di una persona, dall’ambiente dove vive, dalla sua esperienza di potere e abuso di potere. Quando parliamo di omicidio premeditato, di serial killer, allora entrano in gioco anche deficit psicologici, che spesso si basano su danni ricevuti, malattie, umiliazioni ed esperienze che hanno prodotto un effetto tossico».
Il personaggio più negativo del libro (non lo nominiamo per evitare spoiler) è fermamente convinto di essere dalla parte giusta, soprattutto perché non è stato accusato di nulla dopo la guerra: per qualcuno non c’è crimine senza punizione?
«Per il tipo di colpevole senza scrupoli, è certamente così. Ce n’erano molti nella Germania del dopoguerra, migliaia di persone che hanno saputo minimizzare l’affiliazione al partito nazista e le azioni al servizio del Führer, per riprendere quasi senza problemi i loro posti nei tribunali, nelle istituzioni e in politica. Senza nessuna consapevolezza delle loro responsabilità. Convinti di aver agito secondo giustizia, nel Terzo Reich come nel 1962».
Le vittime sono quasi tutte donne, è un caso?
«No, non è un caso. La violenza contro le donne e le ragazze è un dato di fatto, in tutto il mondo, ancora e in ogni classe sociale. Durante la guerra le donne hanno dovuto sostituire gli uomini in molte posizioni, si sono reinventate capifamiglia, procacciatrici di cibo, lavoratrici, sopravvissute. Hanno sviluppato poteri e libertà inimmaginabili prima, si ritrovano da sole a prendere decisioni di vita e di morte. Poi gli uomini sono tornati dalla guerra e hanno cercato di riprendersi il loro posto: gli Anni 50, la chiusura mentale, l’accento sulla tradizione familiare, sono il risultato. Quando la generazione più giovane ha cominciato a ribellarsi, anche le ragazze: volevano la loro parte di libertà, non solo rock’n’roll, ma autodeterminazione. Gli omicidi delle ragazze sono intesi – senza voler rivelare troppo – come punizione per queste aspirazioni, e non solo dal killer, tra l’altro».
Quanto conta il suo passato da giornalista? Qual è la proporzione tra realtà e fantasia nei suoi libri?
«Non appartengo a quel genere invidiabile di autori ricchi di fantasia. Forse è per questo che mi piace sviluppare le mie storie da contesti e fatti storici: la realtà è la cornice, quella che mi dà gli spunti narrativi, la mia immaginazione poi accende ogni dettaglio che sono andata a scavare nel tempo. Prima di scrivere mi dedico anima e corpo alla ricerca – secondo alcuni anche troppo».
Perchè ha scelto il genere thriller?
«Mi affascina perché affronta i nostri segreti più oscuri e accende una luce sull’abisso dell’animo umano. Quello che mi interessa è indagare le motivazioni che spingono le persone verso il Male. Quando inizio a sviluppare una storia, io stessa spesso non ne so ancora niente. Più conosco i miei personaggi, più l’immagine prende corpo. Deve poter essere eccitante prima di tutto per me mettermi sulle tracce del colpevole».
Chi preferisce dei due investigatori, Elke o Ludwig Maria?
«È come con i miei figli: li amo entrambi, nonostante o forse proprio perchè sono diversi. Elke è una paladina della verità, deve combattere contro le restrizioni che le vengono imposte perché è una donna e anche contro quelle che si autoimpone. Ma, nonostante tutti i dubbi, è determinata ad andare avanti. Ludwig Maria è modellato sull’eroe dei film noir, il mio preferito. Nasconde un animo ferito dietro i silenzi, è un solitario che vive di notte, nei bar e, naturalmente, ama le belle donne. Ammetto di essermi divertita a usare il suo maschilismo, ma solo perché in definitiva è una persona integra».
L’unico veramente giovane sembra Volker, il fratello adolescente di Elke.
«Volker è un figlio dei tempi nuovi, smanioso di esperienze. Nato nell’ultimo anno di guerra, non ha mai conosciuto il padre, ha avuto un’infanzia spensierata in campagna, adorato dalla madre e dalla sorella, che spesso combatte per lui le sue battaglie. È curioso e si avvicina alle cose in modo giocoso, forse per questo sembra così giovane. Non gli manca però lo spirito critico con cui giudicare il passato tedesco».
Come si inserisce Chet Baker nella storia?
«Il momento – Chet Baker è un buon esempio della mia attenzione ossessiva ai dettagli: ho scoperto per caso che si trovava effettivamente a Monaco in quel momento e si era messo nei guai a causa della sua tossicodipendenza. Ludwig Maria è un appassionato di jazz, è un suo fan, ho pensato che fosse perfetto farli incontrare».
Lei che musica ama?
«Non sono una vera intenditrice di musica, ho bisogno di aiuto dall’esterno. Fortunatamente, gli amici mi procurano playlist adatte al mood dei miei libri. Fondamentalmente ho un debole per il Rythm&Blues, il soul e alcuni nuovi stili jazz».
E i suoi libri preferiti?
«La mia classifica si aggiorna di continuo perché sono una lettrice vorace, compulsiva, sicuramente con una preferenza per autori americani e britannici. Di recente sono rimasta colpita da James M. Cain, il cui Il postino suona sempre due volte è stato pubblicato in una nuova traduzione tedesca. Bellissima. Come il suo romanzo Mildred Pierce, tra l’altro. Un autentico femminista».
Lei oltre ai libri scrive anche sceneggiature. Dove si sente più a suo agio?
«Fondamentalmente mi sento più libera, più in controllo, quando scrivo un romanzo. Ma è anche una faccenda solitaria, a volte ti vien voglia di sbattere la testa contro il muro perché non riesci a venire a capo di un problema. Il cinema è un lavoro collettivo, ci si deve confrontare con gli altri, trovare compromessi tra le varie idee e così si diventa più creativi e si trovano soluzioni impensate. Naturalmente cambia il modo di scrivere: nei film il potere dell’immagine dovrebbe, nel migliore dei casi, sostituire le lunghe spiegazioni: per me il miglior esempio è A Venezia... un dicembre rosso shocking di Nicholas Roeg, uno dei miei preferiti di tutti i tempi per la forza delle immagini. La sceneggiatura deve essere breve e concentrata sull’essenziale, ristretta come un buon sugo. Bisogna autolimitarsi ben più che in un romanzo: insomma, la regola “show don’t tell” è una benedizione e contemporaneamente una maledizione». —