Robinson, 8 maggio 2021
Intervista Remo Guidieri
In questo tempo mal vissuto, che è il tempo delle ordinanze, la vita sperimenta da vicino i suoi limiti imprevisti. Perché l’uomo occidentale non pensa mai l’accadere in termini di morte, ma solo in quelli del consumo. La pandemia ci ha tolto il consumo e ci ha lasciato il senso dello smarrimento, al quale non siamo abituati. Di tutte le creature della terra il nostro uomo è il solo che possiede il desiderio infinito, per questo teme la morte.
Ne ha orrore. Pensavo a questo leggendo uno stranissimo e fondamentale libro apparso alcuni anni fa: Il cammino dei morti, un viaggio antropologico svolto da un personaggio che ho faticato a contattare, Remo Guidieri. Vive a Parigi, ha all’incirca ottant’anni ed è stato allievo di Claude Lévi-Strauss. Ci parliamo per Skype. Ha un volto largo e franco di un uomo ancora volitivo e bello, le cui esperienze mi intrigano. Ha lavorato, come antropologo, in Melanesia. Vale la pena credo sentire direttamente il suo racconto.
Lei nasce a Torino e poco meno che trentenne decide di trasferirsi a Parigi, dove tutt’ora vive.
«Arrivai a Parigi nell’inverno 1966-67, forte di qualche suggestione e tra queste la lettura di un libriccino di Lévi-Strauss. Era il saggio Il totemismo oggi.
L’impressione fu forte. Mi proposi di incontrare l’autore e magari di lavorare con lui. Lasciai Torino e il giornalismo. In cambio trovai un maestro disponibile.
Fu generoso ad accogliermi al Collège. In seguito mi accadde di scoprire la collezione oceanista di Tristan Tzara, considerata fondamentale già ai tempi di Charles Ratton, il grande mercante parigino degli anni Trenta, e la cosa fu dirimente».
Arrivò a quella collezione in che modo?
«Le letture surrealiste mi condussero a Tzara. Abitava nella casa progettata di Adolf Loos e fu una serata molto forte. Vidi un uomo scontento. Gli chiesi se avesse voluto fare altro nella vita. Sì, l’avventuriero, rispose.
Aveva una collezione interessantissima di reperti provenienti dall’Oceania. E quando mi resi conto delle fondamentali implicazioni culturali, decisi che quello sarebbe stato il campo della mia ricerca e lo annunciai a Lévi-Strauss».
Come reagì?
«Fu sibillino. Disse: i motivi che spingono un ricercatore a una scelta piuttosto che a un’altra sono innominabili.
Sembrò una frase dal significato implicito che non sono mai stato capace di chiarire fino in fondo. Mi viene in mente Mallarmé e il coup de dés, cioè il ruolo riconosciuto e travolgente del Caso, a volte crudele o generoso».
Per lei è stato generoso?
«Mi permise di assaporare il barocchismo delle società australiane, quel vasto campo immaginativo tradotto in sistemi di parentela. Accadde nei miei anni giovanili, quando cercai ingenuamente di allontanarmi dai “vecchi parapetti dell’Europa”, per imbattermi nell’arcaico remoto, in quei frammenti neolitici che resistettero per millenni al rullo compressore della Storia evolutiva».
Ingenuamente perché?
«Perché il rigetto, pur ambiguo, della Storia, si suppone avvenga nella ricerca di un “altrove”, che è un’invariante dell’Occidente e non solo. Ma il percorso di vagabondo che l’etnologo intraprende è molto meno avventuroso e pittoresco di quello che seguirono i suoi antenati».
A chi pensa?
«A coloro che fuggirono il mondo “civile” come ebbero a farlo innumerevoli “beachcombers”, vagabondi di quegli arcipelaghi in fuga fin dai tempi dei balenieri. Per me fu anche un’esperienza letteraria. Leggevo filosofi antichi ed etnografie di Oceania di prima mano.
Imparavo trascrivendo la lingua. Ne vennero fuori “fioretti” selvaggi da cui prese corpo l’impresa che divenne il mio viaggio».
Che ricordo ne ha conservato?
«Il ricordo che ne ho è intenso perché intensamente irreale. Sono passati più di 40 anni da quella prima, e non unica, esperienza. Quel periodo durò all’incirca un anno e mezzo. Poi ci furono altri viaggi, alcuni ancora in Melanesia, nelle Nuove Ebridi, e poi nell’impero Tonga in Polinesia. In seguito accompagnai l’amico Francesco Pellizzi nell’area Maya del Messico, ma qui mi limitai a una promenade, visto che il mio impegno fu abbastanza epidermico».
Quanto ha contato l’inquietudine di quegli anni?
«Effettivamente fu un periodo di subbuglio e accelerazione, disordinato ma anche inevitabile. Mi sentivo, come altri, a disagio e cercai nell’illusione primitivista di sfuggire a certe soluzioni autoritarie che come spettri si aggiravano nell’Occidente opulento».
C’è riuscito?
«Le mie ragioni di allora erano spurie e confuse. Potevo anche viaggiare lontano e immergermi in questioni senza vero sbocco. Al pensiero, sotto lo scacco di teorie e tesi già costituite, preferii la cronaca di me e di loro».
Quando dice “loro” intende le popolazioni che ha incontrato, i villaggi in cui ha vissuto?
«Intendo il mio soggiorno fra i melanesiani, in una comunità ancora fedele al suo sapere arcaico e tuttavia già alla deriva. Mi restano i ricordi di alcuni personaggi che furono miei assidui compagni per la durata dei miei soggiorni tra i Fataleka. Uno era Ngerea, un uomo in grado di vedere le cose terribili così come sono, senza dissimularle a se stesso. Lo conobbi qualche settimana dopo il mio arrivo, nel 1969. Il mio pidgin, l’idioma con cui mescolavo varie lingue, non era in grado di supplire alla mia ignoranza della lingua dei Fataleka.
Quell’implacabile mutismo, rotto da qualche borbottio, durò fino a quando non appresi i rudimenti del loro comunicare. Fu invece Siau a iniziarmi alla foresta».
Che valore aveva?
«Per me che l’associo al senso di disorientamento ebbe il valore dell’esperienza inattesa. Durante l’alba cominciò l’escursione. Mi inoltrai dentro caotici cunicoli di una foresta sconvolta da resti di orti abbandonati in cui si accumulavano le scorie vegetali, arbusti cresciuti, disordinatamente, attorno a tronchi biancastri brutalmente tagliati alla base. Il tutto dava l’impressione di spazi desolati che suscitavano in me la sensazione sgradevole di qualcosa di familiare».
Qualcosa che aveva già visto o vissuto?
«Reminiscenze che mi riportavano agli spiazzi desolati creati dai bombardamenti, a Torino, dove d’estate giocavo da bambino».
Come si concluse l’escursione nella foresta?
«Seguii un percorso che sembrava non avere fine.
Circondato da rumori sconosciuti raggiunsi una vallata, un immenso sudario verdastro, e vidi in lontananza delle basse colline di terra arida. Il caldo era opprimente, la tensione dei muscoli fortissima. Il mio sguardo si era intorpidito, il pensiero divagava. Con la schiena curva per lo sforzo affrontai la salita che portava al villaggio, protetto da una rudimentale palizzata».
Che accoglienza trovò?
«Fui accolto da una folla silenziosa. Gli uomini separati dalle donne stavano in piedi nei pressi della capanna principale. Qualcuna di esse rideva. Tutti indossavano ornamenti di osso e di conchiglia. Faneta, un giovane che mi aiutava nella traduzione, indicò una pedana e mi invitò a salire. Restai in piedi, in silenzio per alcuni minuti. Provavo disagio sotto lo sguardo della folla. Mi accucciai in terra. Un gruppo di uomini preceduto da Faneta salì sulla pedana e a turno mi tese la mano e distogliendo il viso scuoteva mollemente la propria.
Solo Siau non distolse il suo sguardo dal mio. Poi disse: “Se tu vuoi rimani, se non vuoi non rimani; se noi vogliamo rimani, se non vogliamo non rimani”».
Che cosa voleva dire?
«Quelle parole definitive esprimevano il senso dell’autorità e della liturgia. A un certo punto tutti scesero dalla pedana. Faneta mi chiese di restare perché avrebbero suonato per me. Vidi alcuni di loro avanzare con dei flauti di bambù. Si disposero su due file e mi accinsi ad ascoltare una musica lamentosa. Fu uno spettacolo strano e, quando tutto finì, percepii chiaramente che la mia presenza era stata avvertita come un’intrusione».
Cosa glielo fece pensare?
«La sensazione che l’arcaico non offre appigli umanistici. Per molto tempo l’arcaico è stato il paradigma dell’alterità, la figura di una situazione originaria che coincideva con la natura, con il preumano. Il Novecento, con il suo concetto di humanitas, ha banalizzato la diversità. L’ha resa ideologica. Bisognerebbe tornare al pensiero eleatico».
Intende alle origini greche del pensiero?
«È inevitabile quando ci si muove a casaccio, quando si è digiuni della tradizione. Un’intera generazione ha ignorato le grandi premesse della filosofia e le ha perfino osteggiate a vantaggio di una sociologia totalizzante».
Per un etnologo la globalizzazione rappresenta una minaccia o un’occasione?
«Nei suoi vari modi di manifestarsi rende pressoché inutile opporvisi. Sarebbe interessante leggere a questo proposito lo scambio di saggi tra Jünger e Heidegger, all’inizio degli anni Sessanta».
Immagino si riferisca a “Oltre la linea”, il libro che li raccoglie.
«Lì c’è la spiegazione del perché il nichilismo è la storia stessa dell’Occidente che non ha bisogno di sistemi totalitari per manifestarsi. Jünger riteneva fosse una malattia curabile, Heidegger la vide come qualcosa da cui non saremmo mai guariti».
Dove e con chi si è laureato?
«Sono diventato dottore in lettere nel 1980 a Parigi e
quindi professore a Nanterre. Non ho altri titoli».
Le sue origini quali sono?
«Toscane dal lato paterno e Monferrato da quello materno. Mio nonno di San Giminiano lavorò come scalpellino a Forte dei Marmi. Poi si trasferì a Torino dove conobbe mia nonna, una contadina. Furono loro a formarmi e a educarmi, più che mio padre. A 13 anni finite le scuole di avviamento andai a lavorare come apprendista tipografo. C’era gente interessante, cultori del pensiero anarchico, soprattutto tra i correttori».
C’è una dedica in un suo libro: “A mio padre e ai suoi amici, inventori di trappole”.
«Inventava brevetti di meccanica. Fu partigiano, combattendo tra l’altro nella Guerra civile spagnola, e proletario, anzi Arbaiter, lavoratore, operaio (direbbe Jünger). Da figlio ho ripreso a mio modo quella “educazione sentimentale”. Ma scrivendo libri – il che mi sembra un’aberrazione – sono ormai un borghese.
Nel darwinismo sociologico in cui sguazziamo, è l’ultima spiaggia dell’evoluzione».
Sempre a proposito di dediche ce ne è una a Jean-Michel Basquiat: “Ricordo del McDonald, degli accattoni sotto il ponte di Brooklyn”.
«Lo conobbi bene e scrissi vari saggi sul suo lavoro. Ho sempre letto e annotato scritti di artisti contemporanei. E di autori del nostro tempo, da Bateson a Deleuze, che conobbi attraverso il mio amico Pierre Clastres».
Che impressione le fece?
«Deleuze mi è sempre parso uno spirito inventivo perché libero, seriamente filosofo e tributario di Lacan che pure conobbi».
In che circostanza?
«Fu il mio amico l’editore François Wahl a presentarmelo. Andammo a trovarlo. Quando ci vide, disse che stava aspettando un taxi. Ci chiese di fare la corsa con lui. Salimmo, io mi posi in mezzo tra i due.
Avevo da poco scritto e pubblicato – sulla rivista di antropologia L’Homme – un saggio sul maschio e la femmina nella società melanesiana. Giunto a destinazione, Lacan scese dal taxi e rivolgendosi a me disse: giovanotto, ho letto la sua cosa, ma si ricordi che la “femme n’existe pas”».
Un’affermazione provocatoria.
«In linea con tutto il suo pensiero. Lo avevo soprannominato il Dr. Faustroll, il personaggio negromantico di Jarry: pura patafisica. Confesso che non ho mai capito fino in fondo l’affermazione che la donna non esiste, su cui svolse i suoi ultimi seminari. La pronunciò anche davanti a un’assemblea di femministe nel 1973. Ci fu una specie di insurrezione. Lui precisò che non esisteva la donna come soggetto universale, perché ogni donna esiste nella sua singolarità. Ma credo che non fosse disposto a condividere con nessuno il regno assoluto delle sue parole».