Robinson, 8 maggio 2021
Ritratto di Maria Messina
«Una Mansfield siciliana», così Leonardo Sciascia definì Maria Messina nel risvolto di Casa paterna, pubblicato nel 1981 da Sellerio. E, sostenendo che entrambe fossero debitrici a Cecov, a proposito di quella sorellanza specificava: «non soltanto coetanea, ma intimamente vicina nel cogliere gli aspetti della realtà quasi impercettibili e però decisivi, le impressioni sfuggenti e però indelebili». Poco importava che le due avessero letto o meno lo scrittore russo, come poco importava che si conoscessero fra loro, le parentele letterarie stanno negli occhi di chi le scova ed è giusto così, considerato quanto poco sappiamo di quello che scriviamo. La curiosità di leggere Messina e la predisposizione benevola a farlo venivano a Sciascia da un lettore di cui subiva dichiaratamente fascino e autorevolezza, ovvero Giuseppe Antonio Borgese, che nel 1910 aveva recensito i suoi primi due libri inquadrandola come «una scolara del Verga». Sul verismo Sciascia concorda ( «lo era, e specialmente quando oggetto del suo racconto è il mondo contadino, nella scelta della materia, nel taglio, nel calco dialettale» ), anzi aggiunge un esplicito paragone con I Malavoglia
e Cavalleria rusticana, ma lo circoscrive a una parte della sua produzione, riconoscendo all’opera omnia una dimensione più ampia, diversamente letteraria e senz’altro femminista. Chi era dunque Maria Messina, capace di suscitare paragoni così nobili, filiazioni e sorellanze così precise?
Nata a Palermo nel 1887 da un maestro elementare e da una nobildonna, si trasferì sedicenne a Mistretta, sui monti Nebrodi, in provincia di Messina, «paese acchiocciolato ai piedi del castello, con le sue casucce rossastre», come lei stessa lo definì. Il padre, nel frattempo, era diventato ispettore didattico e la famiglia dovette seguirlo nei suoi spostamenti lavorativi, ma per un’adolescente che si affacciava alla vita la noia dell’isolamento era spaventosa: cosa poteva offrire a una giovane donna curiosa e vorace quel piccolo posto di una Sicilia aspra e montana, in cui di giorno si parlava dai balconi e la sera ci si spegneva poco a poco come il tramonto? Proprio nei colori fiammeggianti del crepuscolo, nei silenzi e nei piccoli rumori, nelle voci che andavano sparendo dentro le case, ritroviamo ancora oggi l’atmosfera di certe descrizioni nitide e vive fra le pagine di Maria Messina. La sua occupazione in mezzo al nulla diventò leggere, e poi scrivere, e poi ancora scrivere agli scrittori per avvicinarsi a quel mondo lontano e magico della letteratura, osando sperare che ci fosse posto anche per lei. Impossibilitata a mettere radici per via dei continui trasferimenti al seguito del padre, la ragazza si radicò nei libri: incoraggiata dal fratello, occupava il tempo studiando e formandosi una solida coscienza poetica e civile, mentre mandava lettere a uno dei più grandi scrittori del tempo, Giovanni Verga.
«Illustre Signor Verga, Inviando-Le il mio primo libro, speravo che Ella lo leggesse, ma non osavo aspettarmene un giudizio suo», scrive sorpresa, e poi lasciandosi andare alla meraviglia: «E il primo giudizio, in quest’ora di trepidazioni e di caldo entusiasmo fatta di scoraggiamenti improvvisi e di fugaci e ardite speranze, mi è stato dato da Lei, da Verga! Da Verga di cui avevo letto pagine che m’àn fatto piangere d’ammirazione; da Verga che à colto il meglio e il più dell’anima Siciliana. E le Sue parole piene di benevolenza, gonfiandomi il cuore di commozione m’ànno infuso il coraggio di guardare finalmente davanti a me…». Nel rivolgersi con tanto ardore, Messina si scusa, è un fiume in piena, spiega che non è mai andata a scuola, ha sempre vissuto da sola, nella sua piccola famiglia, acculturandosi come poteva. Verga, accorgendosi di quel troppo talento, la aiutava a pubblicare le sue novelle sulle riviste, la esortava a partecipare ai premi letterari. Il mondo, poco a poco, doveva accorgersi di lei.
A vent’anni, a Maria Messina fu diagnosticata la sclerosi multipla. Le sue condizioni di salute si andarono aggravando e la scrittrice morì nel 1944 a Pistoia, dove allora abitava, ma il suo corpo tornò poi a Mistretta: dei tanti luoghi che aveva toccato, era quello cui apparteneva. Anni dopo, un’altra giovane donna avrebbe sfidato le convenzioni editoriali con talento e coraggio: si chiamava Annie Messina, ma essere nipote della scrittrice l’aveva portata a scegliere uno pseudonimo, Gamîla Ghâli, per pubblicare Il mirto e la rosa, un romanzo che narra l’amore fra due uomini in atmosfere da Mille e una notte. Uscì per Sellerio nel 1982, e nella seconda edizione Leonardo Sciascia svelò il vero nome dell’autrice, raccontando che aveva voluto mimetizzarsi “per discrezione”, ovvero perché riteneva di non doversi immettere nella scia del successo di Maria, tanto più che da quella stessa casa editrice era stata riproposta. Così Annie racconta la sua predecessora: «Una giovane donna minuta con un visino pallido dai grandi occhi luminosi incorniciato da una massa di fini capelli castani». I racconti e i romanzi di Maria Messina, oggi, sono pubblicati da Sellerio e da Croce. Vi si legge di donne costrette a chinare la testa o sorprese nell’atto di non volerlo fare, la tentazione della libertà nasconde un vibrante senso politico dentro atmosfere intimiste: è molto di quello che chiediamo, oggi più che mai, alla migliore letteratura.