la Repubblica, 8 maggio 2021
Quella corazzata che ci ha salvato
La rubrica si intitolava “Il critico in poltrona”, lui si chiamava Corrado Brancati ed era il fratello di Vitaliano. Scriveva di cinema, presiedeva il Cuc (Centro universitario cinematografico), era colto e intelligentissimo e proprio per questo si difendeva con la pigrizia dal paragone inesorabile con l’ irraggiungibile fratello, di cui sembrava uno dei personaggi. Alto dirigente della Provincia, “iu mi siddiu” sbuffava quando la segretaria gli portava documenti da firmare, e “Iu-mi-siddiu” finirono con il chiamarlo: “Io mi scoccio”. A Corrado Brancati volevamo un gran bene e per me è ancora lui l’idea platonica del “critico”: bravissimo, onestissimo ma pigro per motivi di famiglia. E voglio dire che ancora oggi quando incontro un critico non lo misuro con il “lei non sa chi sono io”, ma con “il lei non sa chi è mio fratello” nel senso che cerco la parte irrealizzata che gli manca, “altrimenti scrisse François Truffaut – girerebbe i film di cui invece parla”. A questa stirpe di fratelli pigri degli eroi, da Marotta a Grazzini, da Bianchi a Morandini, da Kezich a Natalia Aspesi, dobbiamo emozioni, scrittura, equilibrio, rigore e soprattutto la severità del giudizio che la libertà tiene lontano sia dalla cattiveria sia dalla generica bontà, che è pure peggio. Come tutte le categorie del giornalismo, anche questa è usurata e non è il caso di avventurarsi in spiegazioni storiche. Di sicuro capita spesso che il critico cinematografico, o letterario o televisivo, sia prigioniero dell’amicizia come valore: conformismi e compiacimenti, premi e festival. Il grande Vincenzo Mollica, che ha dovuto lasciare la Rai “in infirmitate et tremore multo” direbbe San Tommaso, è stato il campione della critica colta ma sempre benevola: il termine “mollichismo” (inventato da Aldo Grasso) è nella Treccani. Il critico che esalta e non biasima, loda sempre e non bastona mai è l’uguale e contrario del “nuovo” giornalismo-diffamazione del vaffa turpiloquio. Non la marchetta, che per definizione è pagata -figuriamoci!- ma la critica del fratello (per tornare a Brancati) di tutti i grandi registi, scrittori e star tv, uno di famiglia con il quale ci si confessa e al quale ci si affida. Ecco perché va rilanciata “La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca” che fu la frase abbagliante che già ci salvò come un contravveleno dallo “specifico filmico”, vale a dire dalla retorica venerazione per i cine club dell’impegno, aiutandoci persino a scappare dai castelli fatati del comunismo sovietico e della Rivoluzione d’ottobre. La frase esprime benissimo “il paradosso del critico” perché La corazzata Potëmkin – come La terra trema o Stromboli o Napoleon di Abel Gance… – è un capolavoro nella storia dell’Estetica anche se oggi nessuno spettatore, che non coltivi competenze da studioso, riuscirebbe onestamente a goderselo come un bel film.