la Repubblica, 8 maggio 2021
cosa si è detto al vertice di Porto
Nel chiuso del Social summit di Porto i leader europei si sono bloccati per un’ora, fino a quando l’ungherese Orbán e il polacco Morawiecki hanno ottenuto l’eliminazione dalla dichiarazione finale dell’espressione “parità di genere”. Uno schiaffo all’Europa, un nuovo esempio di quanto sia imperfetta una costruzione in balia dei venti illiberali, di quanto serva una vera forza collettiva per superare gli ostacoli posti da singoli governi nello sviluppo del Continente. Si tratti di diritti e di sociale, di economia, di migranti o di politica estera.
Non per questo va sottovalutato il passo compiuto ieri sera nella Alfandega do Porto da Ursula von der Leyen e David Sassoli, firmatari insieme a imprenditori e sindacati della nuova Dichiarazione sui diritti sociali che fissa target decisamente ambiziosi per tutti i governi dell’Unione. Al centro educazione e giovani, superamento delle disparità tra uomini e donne, lotta serrata alla povertà e all’esclusione sociale. Obiettivi che oggi saranno fatti propri da tutti i capi di Stato e di governo e portati avanti nei prossimi anni dalla Commissione europea di Bruxelles.
Mario Draghi nel suo intervento al Social summit ha però colto la falla di questa costruzione: «Le politiche nazionali da sole non bastano» per garantire risultati concreti, ha affermato il presidente del Consiglio italiano. Non sfugge che affidare i progressi alla buona volontà delle singole capitali significa svuotarle di significato, lasciarle in balia di governi distratti sul sociale se non omofobi e misogini. Ecco perché Draghi ha messo sul tavolo due proposte che farebbero realmente cambiare passo all’Unione nel cammino verso una vera politica sociale europea: rendere i target vincolanti e finanziare le politiche sociali attraverso risorse comuni. Con l’idea più innovativa: rendere strutturale Sure, il fondo da 100 miliardi creato da Paolo Gentiloni per finanziare attraverso gli eurobond gli ammortizzatori sociali dissanguati dal Covid. Sarebbe la nascita di un “welfare europeo” permanente.
Il capo del governo italiano ha così confermato quel ruolo sempre più centrale in Europa, di apripista e contrappeso al lungo tramonto di Angela Merkel e alle distrazioni della dura campagna elettorale che attende Emmanuel Macron. Una postura gradita a diversi partner continentali e agli Usa di Joe Biden. L’ex banchiere centrale, dunque, diventa sempre più punto di riferimento forte del credito dagli anni di Francoforte, quando con il suo “whatever it takes” salvò l’euro, e impossessandosi di un linguaggio per lui nuovo, che guarda alla solidarietà, alle donne e ai giovani.
L’Europa nell’ultimo anno e mezzo ha già compiuto passi prima impensabili. Il Green Deal lanciato da Ursula von der Leyen, che insieme al digitale è rivolto prima di tutto ai giovani. Con la calata del Covid ha poi saputo liberarsi dei vincoli di bilancio, lanciare gli eurobond e il Recovery Fund e ora si appresta a riscrivere il Patto di stabilità, cancellando per sempre l’austerità degli anni Dieci del secolo.
Da dicembre sanziona le violazioni dei diritti umani in tutto il pianeta con il nuovo Magnitsky Act Ue. Ora manca il pilastro sociale.
La grande occasione è alle porte: domani David Sassoli a Strasburgo varerà la Conferenza sul futuro dell’Europa. Per i governi europeisti un dialogo tra istituzioni e cittadini premessa di una vera svolta politica del Continente che cancelli l’unanimità in politica estera, su difesa e fisco e che lanci una vera Unione della salute, dei diritti e del sociale. Per le capitali sovraniste e illiberali, invece, un esercizio da lasciar cadere nel vuoto per evitare in futuro di essere messi nell’angolo da decisioni a maggioranza. Sarà allora che la leadership di Draghi (e di chi succederà a Merkel) dovrà veramente farsi sentire per non far tramontare il sogno di un rilancio europeo cullato e tradito da anni.