La Stampa, 8 maggio 2021
Umanesimo, ritorno al futuro
Il futuro appartiene all’Italia, a saperlo capire e sfruttare. Perché siamo entrati nell’età dell’eccellenza, un nuovo umanesimo che mette la persona al centro di tutto: innovazione, impresa, industria, tecnologia, design, cultura. E siccome l’Umanesimo lo avevamo inventato noi, il brand culturale Italia ci offre un enorme vantaggio competitivo globale perché è unico, se sapremo sostenerlo con la capacità di fare sistema, pensare in scala, e magari copiare l’operatività anglosassone.
Vale la pena di ascoltare queste suggestioni, perché vengono da uno che non parla per sentito dire. Mauro Porcini infatti è partito da Gallarate per diventare il Chief Design Officer di PepsiCo, passando per il Politecnico di Milano, 3M, e altre esperienze a cavallo tra le due sponde dell’Atlantico, che racconta nel suo primo libro pubblicato dal Saggiatore.
Perché lo ha intitolato L’Età dell’eccellenza?
«Viviamo in un’era in cui chiunque può inventarsi un prodotto, un servizio, la soluzione ad un bisogno umano, e competere con le multinazionali. Le barriere erette a protezione delle grandi aziende iniziano a sgretolarsi, sotto la forza di una serie di tendenze come globalizzazione, nuove tecnologie, e-commerce, social media. L’accesso ai capitali è più facile grazie al crowdfunding, i costi della produzione si abbassano, la grande distribuzione può essere aggirata, e i social favoriscono la comunicazione. Ciò consente a chiunque di competere con le multinazionali, creando lo stesso obbligo per piccoli e grandi: focalizzarsi sulle persone, capire le loro frustrazioni, bisogni, sogni, e creare prodotti eccezionali da ogni punto di vista. Il libro poi segue due filoni. Il primo è come fare innovazione in modo diverso, usando l’approccio che noi designer chiamiamo design driven, tutto centrato sull’essere umano. Il secondo è cosa fa la differenza. Se bastassero i processi, tutte le aziende avrebbero successo applicandoli. Come mai non accade? Perché alla fine restano essenziali le persone che usano questi strumenti, gli unicorni, gli innovatori seriali. Perciò descrivo chi sono, quali caratteristiche hanno, come agiscono».
La possibilità tecnica offerta ai piccoli di competere non favorisce l’Italia?
«Da una parte sì, perché il brand culturale Italia è un valore pazzesco in molti settori che abbiamo solo noi. Per farci leva, però, dobbiamo partire dalla consapevolezza dei punti di forza e debolezza. Serve il rispetto delle altre culture, per capire come uscire dai nostri confini creando sinergie. È un’opportunità incredibile, se superiamo l’ottica del solo Made in Italy, dove il Made in Italy è fondamentale, ma è una componente per spingere questa nuova crescita globale che potremmo avere. Se lavorassimo sull’idea del “design in Italy”, il brand culturale italiano, poi magari potremmo produrlo in Cina e commercializzarlo negli Usa. Il design italiano vive molto sugli allori del passato, ma altri paesi creano realtà che diventano leader mondiali, da Ikea per il mobile a Zara per la moda. Bisognerebbe appoggiarsi sulla capacità di fare sistema, lavorare insieme, e poi uscire con la consapevolezza dei propri punti di forza, ma anche l’abilità di usare quelli di altre culture, dalla strategia anglosassone alla produzione asiatica».
Se Draghi le chiedesse consiglio su come usare i fondi Ue per la ricostruzione, cosa suggerirebbe?
«Proposte che rispondano a due punti precisi. Primo, fate leva su un aspetto unico dell’italianità, di questo brand culturale italiano, visto che è un nostro vantaggio esclusivo, e l’economia globale si basa sui vantaggi competitivi difendibili. Secondo, identificate un’altra leva da aggiungere. Potrebbe essere una tecnologia, un brevetto, un approccio diverso a distribuzione o servizi. PepsiCo inizia con la sperimentazione, ma poi l’idea deve essere scalabile alla velocità della luce. Lo stesso vale per la nostra economia: creare idee difendibili nel tempo, ma anche scalabili. E investire nell’innovazione, che sia unicamente italiana, non esportabile da altri».
Cosa dovremmo migliorare?
«C’è da lavorare a monte e a valle. Da una parte, dovremmo costituire incubatori che consentano a imprese e individui di creare start up e generare nuove idee sul mercato, magari finanziati a livello statale o con le sovvenzioni europee. Dall’altra, è fondamentale la formazione. Quella accademica italiana è ottima, ma poi le aziende usano solo una frazione di quanto impari. Forse sarebbe ancora più importante la formazione dei leader del business, affinché capiscano l’importanza dell’innovazione e come farla in modo diverso».
Cosa ci manca?
«Per l’Italia il più grande limite è proprio l’incapacità di fare sistema, collaborare, andare coesi a conquistare il mondo, invece di rimanere frammentati a farci conquistare da francesi, cinesi, americani. Dovremmo investire sulle nostre eccellenze, e poi capire se ci sono realtà consolidate con cui creare sinergie sulla base di queste innovazioni. Poi bisogna chiedersi come sarà il mondo tra vent’anni, per scegliere la direzione».
Come sarà?
«Le persone, e uso questo termine apposta, perché non mi piace chiamarle consumatori, sono sempre più viziate. Ma in modo positivo. Vogliono soluzioni personalizzate per le loro esigenze. Quindi vedo un futuro in cui la tecnologia diventerà un incredibile abilitatore della personalizzazione dei prodotti. Lo stiamo già vedendo con l’offerta televisiva, se pensi a Netflix, oppure nell’abbigliamento, con Nike o Adidas che ti fanno costruire le tue scarpe. Noi facciamo lo stesso con le bevande. Se fossi un imprenditore, guarderei a tutti i settori dove la personalizzazione ancora non esiste, per capire come crearla. Altri ambiti promettenti sono salute e benessere a 360 gradi, dal cibo alla forma fisica; sostenibilità; realtà virtuale, che presto sarà una realtà parallela».
Lei descrive il design come un’attività olistica, centrata su un nuovo umanesimo. Se questo è il futuro, non sarebbe il terreno di gioco culturale ideale per l’Italia?
«Sì, se ci muoviamo velocemente e capiamo quali sono le debolezze e i punti di forza. L’approccio degli americani si basa sul consumatore, e li ha resi grandi attraverso i processi e le strategie. Ma è un sistema che non funziona più completamente oggi, proprio perché è necessario mettere l’essere umano al centro e fare prodotti eccellenti. Nelle riunioni a PepsiCo io parlo di Platone, di amore, di passione per le persone: all’inizio sorridevano, ora capiscono. Questa è la grande forza dell’approccio umanistico italiano, dove dietro ad ogni prodotto c’è un messaggio che lo trascende, una storia, una filosofia. La nostra debolezza invece è l’incapacità di avere strategia e fare sistema. Se riuscissimo ad unire i due approcci, costruendone uno umanistico che però sappia pensare in scala, diventeremmo micidiali, potentissimi».