La Stampa, 8 maggio 2021
Darboe, dal Gambia alla Roma
Lacrime commosse, in fondo ad altre mai dimenticate: lacrime di dolore, solitudine, paura. Ebrima Darboe, gioiellino della Roma, debuttando in Europa League contro lo United, non ha afferrato un sogno cullato tra joystick e figurine, dentro scuole calcio dai prati verdissimi: il suo sogno è un viaggio lungo tre mesi, un bus che attraversa l’Africa e un barcone che sfida il Mediterraneo, cinquemila chilometri di sofferenza e speranza da un campetto di Bakoteh, in Gambia, fino all’Olimpico. «Quel campetto era proprio di fronte casa, dietro la moschea. E il primo pallone era fatto di stoffe intrecciate. Magico, però: non lo lasciavo mai. E piangevo se mamma me lo toglieva». Mamma Janaba ha il sorriso dolce, ma dentro una forza infinita: solo così può tirar su quattro figli, due femmine e due maschi, perché Ebrima non ha più il papà, l’ha perso a soli dieci anni. Dicono sia stato un amico, vedendolo palleggiare e far gol, a instillargli il pensiero di raggiungere l’Europa per sfondare. Un tocco romantico, la realtà è più cruda, la scalata verso la gloria coincide con la fuga dalla miseria: «Sognavo di diventare un campione – racconta -, ma la verità è che sono partito in cerca di una vita migliore. Quando ho lasciato la mia famiglia avevo quindici anni, è stato difficile, mi manca tanto: solo la speranza di riscattare la mia vita e la loro mi ha permesso di affrontare un viaggio infinito. Dalle tappe in pullman per arrivare in Libia, fino alla traversata con il barcone: ho visto nei volti delle persone più anziane la sofferenza e ripensandoci credo che l’età e l’innocenza mi hanno aiutato».
Il bus che arranca nella polvere è stipato fino all’inverosimile, mamme con neonati e vecchi dagli occhi tristi, ragazzi e bambini soli come lui. La Libia è un campo profughi, un’attesa consumata tra prevaricazioni e soprusi. Ebrima non viene sfiorato dalla violenza, ma la vede e respira, ha paura. Poi, finalmente, riesce a imbarcarsi. Il mare nero di notte, la tempesta attorno e nel cuore, un pallone stretto anche tra le onde. Non lo dimentica, e ogni sbarco è un sollievo, ogni naufragio una fitta dolorosa: «Quando sento di chi non ce l’ha fatta, provo grande tristezza. Non augurerei a nessuno quell’esperienza». E tornano in mente le parole affidate a Instagram quando ancora nessuno lo conosceva: «Impariamo a non giudicarci, ma a fare il meglio per un mondo sempre migliore che non obblighi più nessuno a rischiare la vita per avere un’opportunità».
Ebrima arriva in Sicilia spossato, è un ragazzone d’un metro e ottanta ma pesa appena cinquanta chili. Lo mandano in una casa famiglia, e da lì a Rieti dove incontra due persone che gli cambiano la vita: Miriam Peruzzi e Giorgio Ghirardi. Angeli, non solo talent o manager. Il calore della famiglia lasciata a Bakoteh e l’abilità di chi intuisce un talento e sa ritagliargli un’occasione. Il prato dello Young Rieti è la nuova culla del sogno, gli osservatori della Roma vengono chiamati ad assistere a una partita mista, ragazzi e ragazze, e capiscono che la dritta è giusta, lo convocano per un provino: «Dopo venti minuti di gioco Tarantino, allora responsabile del settore giovanile, mi chiede se mi piacesse la squadra. Rimasi meravigliato: ma come è possibile, sono loro che chiedono a me se mi piacciono i miei compagni? In quel momento ho capito che avevo chance di far parte del gruppo. Finito l’allenamento ho chiamato Miriam, ero felicissimo». La Roma lo tessera, lo accudisce, lo coccola: «Attorno a noi – racconta – c’è uno staff che cura ogni aspetto della nostra attività e che ci supporta dentro e fuori dal campo. Devo dire che da febbraio, dopo l’arrivo del nuovo direttore generale Tiago Pinto, le attenzioni nei confronti di noi ragazzi della Primavera che iniziamo a lavorare con la prima squadra sono aumentate: dall’alimentazione alla preparazione atletica, perfino la comunicazione e l’utilizzo dei social, ci sentiamo perfettamente calati dentro un programma, dove siamo seguiti su ogni dettaglio e questo ci aiuta molto».
Ebrima ha afferrato il sogno e giovedì sera è diventato un simbolo, la sua storia trasmette coraggio a migliaia di ragazzi in fuga dalla fame e dalla guerra: «Vorrei dir loro di avere fiducia e dare il massimo in tutto ciò che fanno. Ma soprattutto di continuare a credere nei sogni». Restano, per lui e per quei ragazzi, altre sfide da vincere, altri viaggi duri da affrontare: «Qui a Roma non sono mai stato oggetto di insulti razzisti, ma non per questo penso che questo fenomeno vada sminuito. Solo facendo fronte comune si possono isolare le persone che ancora pensano che sia tollerabile». Maturo, più grande dei suoi vent’anni, costretto d’altronde a crescere in fretta lontano dalle radici: «Sento i miei tutti i giorni, sono contenti e orgogliosi, soprattutto mamma. Purtroppo non riesce a vedere la partita perché si emoziona troppo e le viene da piangere. Con il mio primo contratto importante le comprerò una casa in Gambia, credo che voglia rimanere lì e vorrei che avesse una bella abitazione». Sorride, quasi non ci crede: chi mai avrebbe immaginato che quel ragazzino arrivato in barcone sarebbe stato allenato da Mourinho? «È un grandissimo allenatore ed è normale che mi emozioni solo l’idea di poter lavorare con lui. Ho ancora molta strada da fare, ma sarebbe fantastico poter far parte del gruppo. Intanto devo ringraziare mister Fonseca per la fiducia che mi ha dato. E spendere alcune parole per lo Young Rieti, la mia prima squadra in Italia, e per tutte le persone che mi hanno aiutato in questo percorso nel settore giovanile della Roma». —