La Stampa, 7 maggio 2021
Terroristi, il punto di Armando Spataro
Ieri su queste pagine è stato pubblicato un articolo di Donatella Di Cesare («Gli Anni 70 non furono solo di piombo»), stimolante e condivisibile nella parte iniziale, in cui si rende onore al dolore ed alle pubbliche testimonianze delle vittime del terrorismo e dei loro parenti. Un articolo, però, che si presta ad alcuni rilievi critici. Lo dico rispettosamente, da ex magistrato che con altri colleghi si è occupato a tempo pieno proprio dei tragici fatti che hanno caratterizzato quegli «anni di piombo». Questa definizione, tratta dal titolo di un noto film di Margarethe von Trotta sul terrorismo tedesco della R.A.F., non è gradita alla professoressa Di Cesare, mentre personalmente la giudico di straordinaria efficacia, tale da sintetizzare il mio giudizio su quel periodo: quegli anni non furono sicuramente tutti di piombo, ma quello usato contro centinaia di vittime innocenti ha bloccato lo sviluppo della nostra democrazia tra la fine degli anni ’60 (a partire dalla strage di Piazza Fontana) e la fine degli anni ‘80. Ed i movimenti progressisti che in quegli anni agivano nulla avevano a che fare con i gruppi terroristici: nessuna originaria matrice comune, nessuna concessione alla vecchia teoria dei «compagni che sbagliano».
Dobbiamo parlare del passato e ben spiegarlo non solo per ricordare le vittime del terrorismo, ma perché ciò serve per il presente e per il futuro. Lo facciamo in tanti ovunque sia possibile, persino nelle scuole medie inferiori, parlando senza retorica, perché tutto sia chiaro e siano evitati gli errori che la nebbia e racconti impropri possono produrre.
Le vittime del terrorismo furono numerose. Tra loro non c’erano solo magistrati, poliziotti, carabinieri e politici ma anche giornalisti, medici, infermieri, imprenditori e persone che facevano lavori normali o che si trovarono per caso sulla scena di qualche delitto: il tutto perché gli assassini volevano cambiare la forma dello Stato, abbattendo la democrazia ed instaurando, a seconda della loro matrice, la «dittatura del proletariato» o la dittatura di stampo neo fascista. Si può capire perché, in un’intervista, Marco Alessandrini confessò di non essere mai riuscito ad elaborare il lutto che lo aveva segnato quando aveva otto anni. Ciò che non gli dà pace – spiegò quel giorno – è che suo padre Emilio «era stato ucciso da una banda di cretini...». Aveva perfettamente ragione e lo ripeto sempre ed ovunque sia possibile.
Intanto va spiegato che, contrariamente a quanto ancora oggi sostengono certi giustificazionisti irriducibili (tra cui non vi è certo Donatella Di Cesare) o ex terroristi, non furono affatto decine di migliaia gli inquisiti e condannati per terrorismo in quegli anni: numeri taroccati che servirebbero a dimostrare sia il radicamento sociale di quelle ideologie, sia che fosse in atto una vera e propria guerra civile nel nostro Paese, tale determinare il rovesciamento delle Istituzioni.
Giustamente nell’articolo citato in premessa, si afferma che «l’emozione, oltre a squilibrare il dibattito, lo depoliticizza», ma deve aggiungersi che il dibattito non può neppure essere «destoricizzato». La definizione «anni di piombo» non è riduttiva: serve piuttosto a ricordare come quel piombo abbia influito negativamente proprio su movimenti come il femminismo, l’internazionalismo, l’impegno per i diritti civili ed altre lotte che nulla hanno avuto a che fare con le ideologie dei gruppi eversivi. Non credo affatto che la lotta armata sia nata da un’area comune di lotta sociale: ha piuttosto tentato di strumentalizzarla, sia a fini di proselitismo, sia per stupidità assoluta di chi la praticava, nella convinzione che quell’area di impegno sociale avrebbe potuto essere inclusa nell’imminente sforzo di instaurare una o l’altra forma di dittatura: da un lato – si pensava – sarebbe crollato lo Stato Imperialista delle Multinazionali ed il proletariato avrebbe conquistato il potere assoluto, dall’altro si era certi che, attraverso bombe e stragi, alimentando il senso di insicurezza e paura dei cittadini, le libertà ed i diritti civili sarebbero stati confinati entro il perimetro della sudditanza al potere neo-fascista.
Erano anni, quelli, in cui la nostra democrazia è stata capace di grandi riforme, dalla legge sul divorzio a quella sull’ordinamento penitenziario; anni in cui cresceva il ruolo dei sindacati e le forze politiche sapevano dialogare fino al compromesso storico: ma era proprio quello il contesto che le Brigate Rosse ed i gruppi neofascisti volevano azzerare con la violenza ed il sangue.
Non è stata dunque la rivolta della sinistra ad assumere in alcune aree la forma di lotta armata. È stata questa, invece, che ne ha rallentato l’evoluzione progressista, mentre alcuni pseudo-intellettuali dell’epoca hanno avuto il grande torto di non denunciare questa deriva, di non prenderne le distanze, arrivando addirittura a predicare una indicibile forma di terzietà: «Né con lo Stato, né con le Brigate Rosse».
Ha scritto giustamente Donatella Di Cesare che sono inaccettabili anche certi toni complottistici, ma anche – aggiungo io – chiedersi cosa è avvenuto in quegli anni. Ce lo dice la storia: di quegli anni sappiamo praticamente tutto e ciò che non sappiamo è marginale. È inutile, pertanto, chiedere – quale condizione di un loro accesso a benefici penitenziari – che gli ex terroristi da poco arrestati (e subito liberati) in Francia, se estradati, rivelino le verità mancanti. Sarà la magistratura di sorveglianza, invece, a valutare se i loro cambiamenti soggettivi li rendano meritevoli di benefici previsti dalla legge a fini di reinserimento sociale. Benefici di cui forse avrebbero potuto godere se si fossero spontaneamente costituiti.
Ma si eviti, per favore, di continuare a definirli innocenti o perseguitati, o a predicare che non avrebbe senso «mandarli oggi in galera»: è vero che gli arresti postumi non sanano le ferite, ma è pur vero che le ferite possono aggravarsi senza giustizia. E la giustizia, in ogni democrazia, non può prevedere alcuna forma di impunità per chi si è sottratto per 30 o 40 anni alle pene irrogate dalle Corti nazionali, godendo di forme di immunità e protezione illegali.—