La Stampa, 7 maggio 2021
Romanzo Quirinale
Mettetevi comodi, perché già a sfogliare le prime pagine di questo Romanzo Quirinale avrete la sensazione di essere finiti dentro Il Trono di Spade. Un puzzle caleidoscopico di personaggi, trame e sottotrame, da cui emergono tre probabili candidati a prendere il posto di Sergio Mattarella al Colle: Mario Draghi, Marta Cartabia e…Sergio Mattarella. A due mesi e mezzo dal semestre bianco che lancerà la corsa alla presidenza della Repubblica a fine gennaio, la successione al trono istituzionale più alto comincia a fare capolino dai discorsi dei leader.
Persino all’interno dei singoli partiti, però, non c’è una linea d’azione unica, tenendo presente che l’elezione del Capo dello Stato cade a un anno della fine della legislatura e potrebbe accelerare la conclusione dell’ultima che conta mille parlamentari, molti dei quali non avranno altre chance. E se da sempre il Quirinale è una finalissima che il voto segreto rende piena di sorprese, con il Parlamento nevrotico di oggi l’imponderabilità diventa la variabile suprema. In tre anni 216 parlamentari hanno cambiato bandiera, e il partito vittorioso nel 2018 è diventato il principale fattore di instabilità. Entrato con 327 deputati e 111 senatori, il M5S ne ha persi un centinaio. Come ammesso in privato da Dario Franceschini, uno che nel Palazzo sa come muoversi, se anche il Pd volesse fare un tentativo per sbarrare la strada a una candidatura del centrodestra, non potrebbe assicurarsi la convergenza dei rissosi grillini ed ex. E allora non resta che ragionare di conseguenza. Al momento, esistono tre alternative, tutte istituzionali: il premier Draghi, la ministra della Giustizia Cartabia e l’attuale presidente Mattarella, che gli eventi costringerebbero al bis come avvenne per Giorgio Napolitano.
Sul destino di Draghi, negli ultimi giorni la Stampa ha raccolto le irrequietezze di fonti vicine ai ministri tecnici che sono espressione diretta del premier. L’orizzonte che si sono dati è di un anno. Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani lo ha detto in più occasioni. Ma è una scadenza che intravedono come possibile anche altri, da Daniele Franco a Vittorio Colao a Cartabia. Un anno, a partire dalla nascita del governo Draghi, il 13 febbraio. Il che fa pensare a una coincidenza perfetta, perché a febbraio del 2022 si entrerà nel vivo della partita quirinalizia. Fino al giorno in cui è stato chiamato a sostituire Giuseppe Conte, Draghi era considerato il candidato più probabile per il Colle e ancora oggi, riferisce chi nel governo lo conosce, non ha del tutto messo da parte questa ambizione. È vero, non ci sono precedenti di traslochi direttamente da Palazzo Chigi al Quirinale, ma a dare sostanza a questa ipotesi ieri è stato il leader della Lega Matteo Salvini in un’intervista a El Paìs: «Se sarà Draghi, che sia Draghi. Ma lasciamo che sia scelto a scadenza naturale, a febbraio». Concetto rafforzato poco dopo, «lo sosterremo convintamente», e che va ribadendo privatamente in modo ancora più palese: «Draghi va benissimo, ma se vuole andare al Colle con i voti del centrodestra deve andarci a febbraio», nella speranza che questo passaggio faciliti la fine anticipata della legislatura. Ha fretta, il capo della Lega, perché nei sondaggi è tallonato dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, e andare al voto potrebbe essere per lui vitale. Per due motivi: per capitalizzare il consenso di quello che è ancora il primo partito e per evitare, come è costume italiano, che nell’ultima curva della legislatura i partiti realizzino una legge elettorale, magari proporzionale, per sfavorirlo. Sulla carta, la scelta dell’ex banchiere è contemporaneamente la più facile e la più difficile. La più facile, perché i partiti che attualmente lo sostengono da premier coprono la quasi totalità dell’arco parlamentare e dovrebbero giustificare come mai non può andar bene per il Colle. La più difficile, perché Draghi dovrebbe incardinare le riforme epocali del Pnrr, e per gennaio lasciare, gettando nel panico l’Europa, che lo considera un’assicurazione sulla vita del Recovery plan, e gli altri partiti che una forza inerziale spinge in direzione opposta a Salvini. Il prossimo parlamento perderà circa il 40 per cento dei posti. Il M5S ha dimezzato il consenso, il Pd esprime ancora eletti da Matteo Renzi ed è in fase di ricambio, Forza Italia difficilmente porterà più di un pugno di deputati e senatori nel prossimo Parlamento. Se anche non fosse automatica l’equazione Draghi al Colle uguale scioglimento Camere, chi è in grado di convincere i parlamentari di questi partiti a gettarsi nel vuoto rischiando di perdere un anno di legislatura e centomila euro di stipendio più benefit?
Salvini parla a nome del centrodestra ma sa che Fi non lo seguirebbe. E anche dentro il suo partito c’è chi dissente. Giancarlo Giorgetti è il teorico dello schema che vede Draghi a Palazzo Chigi e Mattarella al Quirinale, per un anno, fino al voto che rinnoverà le Camere. Una prospettiva che ha conquistato i renziani di Italia Viva e i parlamentari Pd di Base riformista, la corrente del ministro Lorenzo Guerini, che a loro volta coccolano un disegno: tenere Draghi a Palazzo Chigi anche dopo il 2023. Renderlo alternativo all’avvento di un premier sovranista, sostituendolo ad Angela Merkel come guida spirituale d’Europa. Per far maturare questo piano però serve tempo e una legge elettorale diversa. Tempo in più che serve anche per definire una coalizione di centrosinistra che al momento non c’è, per le poche certezze che offre il M5S. Il sacrificio chiesto a Mattarella nascerebbe da qui. Dal Quirinale filtra l’indisponibilità del presidente della Repubblica ma, come sa lui per primo, solo fino a un certo punto la decisione è davvero nelle sue mani. Mattarella ricorda bene gli scatoloni che Napolitano aveva già pronti. E poi non è insensibile all’argomento che un presidente votato nel 2022 sarebbe espressione di un Parlamento «vecchio», che solo un anno dopo verrebbe dimezzato.
Nel Pd c’è però anche chi intravede un rischio in questo ruolo di traghettatore di Mattarella. Perché se le cose si mettessero male, la destra, imponendosi al voto del 2023, avrebbe tutto: premier e capo dello Stato. È il motivo per cui ai vertici dem resta ancora forte la tentazione di provarci subito, a febbraio, corteggiando parte di Fi. I nomi di casa sono sempre gli stessi: Paolo Gentiloni, David Sassoli, Franceschini. Qualcuno nel Pd sussurra il nome di Conte e qualcuno nel M5S, che non lo gradisce troppo da leader, potrebbe anche tirarlo fuori. Ma c’è anche chi più realisticamente sa che c’è un altro tecnico a disposizione che garantirebbe la continuità di Draghi al governo e la successione spirituale di Mattarella, se il presidente non volesse restare. È Cartabia. Costituzionalista, sarebbe la prima donna nella storia. In molti hanno notato che da ministro non sta forzando la mano sulla riforma della giustizia e sulla prescrizione, proprio per non scontentare nessuno, specialmente i 5 Stelle. Piace a destra, non dispiace a sinistra, ed è nel carnet di Renzi per quella che potrebbe essere la sua ultima sfida politica da protagonista