la Repubblica, 7 maggio 2021
Intervista a Jean-Pierre Jeunet
Il mondo di Amélie vent’anni dopo è rimasto favolosamente lo stesso: la ragazza timida che parla con gli occhi e il sorriso di Audrey Tautou, taglio a scodella e l’imitatissima frangia corta. I piccoli riti, la felicità di rompere col cucchiaio la crosta della crème brûlée, la capacità di liquefarsi tra le lacrime. Si muove in una Parigi senza tempo, lucida e colorata, popolata di personaggi pieni di sogni perduti e cuori infranti e vite malinconiche. S’immagina, dando loro una piccola spinta verso la felicità, “la madrina degli emarginati, la Madonna degli indesiderati”.
L’autore, Jean-Pierre Jeunet, questo mondo lo ha preservato dalle clonazioni rifiutando remake e serie tv (a parte un musical di Broadway che non ha mai visto). Il film culto torna in sala l’11 e il 12 maggio con Bim, due decadi dopo il debutto e Jeunet, al telefono da Parigi, ne parla con l’amore di un padre verso il figlio prediletto. La prima domanda la fa lui ridendo: «Com’era il titolo italiano? Avevano proposto Amélie – Un amore, rifiutai».
Molte eroine di film e serie tv sono figlie di Amélie,
«Assolutamente. Ma questo non mi crea frustrazione. Coco Chanel diceva: copiate pure le mie idee, ne avrò delle altre. A volte si tratta di omaggi, altre di semplici furti. Jaco van Dormael per Toto le héros fece molte cause, io li considero omaggi».
In particolare?
«Molti mi hanno chiamato ai tempi di La forma dell’acqua, in realtà mi pare abbia preso più da un altro mio film, Delikatessen, con la storia dell’acqua che esce dal water e allaga tutto. Ma Guillermo del Toro è un amico, lo consiero un omaggio. E poi la serie Pushing Daisies... e Emily in Paris ? A partire dal nome della protagonista: una coincidenza? Che poi è un personaggio che viene dal mondo del marketing che domina le nostre vite, e diventa l’eroina della storia…».
Nella prima versione Amélie si chiamava Emily.
«Volevo che la recitasse Emily Watson ma in francese perdeva la metà del talento. La scrissi in inglese ma lei non volle venire a Parigi per sei mesi a causa della famiglia. Così Emily diventò Amélie e mi imbattei nel manifesto con una giovane attrice, aveva fatto un solo film, Audrey Tautou. La convocai, in dodici secondi capii che era perfetta».
Il film uscì nel 2011 subito dopo l’11 settembre, con la sua energia positiva conquistò gli Stati Uniti. E stavolta esce dopo il difficile momento della pandemia.
«Non ci avevo pensato, ma in effetti sì. E devo dire che è un buon film ancora oggi. Un paio di anni fa ero a Los Angeles e l’American Cinematheque sull’Hollywood Boulevard fece due proiezioni pienissime. Da vent’anni i turisti ogni quattro minuti scattano foto al Café des 2 Moulins. È un po’ il mio film Disney, ogni sei mesi ricevo ancora proventi. Non lo avrei mai immaginato».
Lo fece subito dopo “Alien-La
clonazione”.
«Lo avevo in mente da prima, dopo le fatiche di Alien volevo qualcosa di sentito e semplice. Hazanavicius di
The artist dice che è stato come viaggiare di notte a Parigi con i semafori tutti verdi. Per me con Amélie è stato tutto perfetto, ogni giorno di set. Almeno fino all’Oscar: erano tutti talmente sicuri che avremmo vinto che Steven Spielberg mi mandò una lettera di complimenti in anticipo. Ma il mio “amico”, sono ironico meglio specificare, Harvey Weinstein fece dei pasticci e alla fine non vincemo nulla».
Perché Amélie è diventata un modello per tante ragazze?
«Credo si siano riconosciute nella sua solitudine in ogni parte del mondo.
Soprattutto in Giappone, dove il film è un culto assoluto. E nella capacità di godere delle piccole cose».
Il personaggio ha anche diviso. È stato accusato di proporre un modello anti femminista, addirittura di istigare al femminicidio. E di proporre una Parigi non multietnica.
«Il mio non è un film realistico, capisco che non piaccia a quel pubblico che ama i film politici, realistici. Alcuni registi propongono fette di vita, io offro fette di torta. Il mio film guarda a Jacques Tati: è una favola, con una Parigi da favola. Mia moglie vedendo il film intuì che quella Parigi sarebbe piaciuta agli americani, e aveva ragione. Sono stato criticato perché non c’erano gay, non c’erano neri, ma è difficile sfuggire a questo tipo di critica, c’ è sempre qualcosa che resta fuori.
Anche perché per molti mettersi contro qualcosa è un modo di stare in vetrina».
Che ne è stato del finto documentario su Amélie?
«Non ho trovato i finanziamenti. Era divertente, pieno di gag, animazione. E costava poco. Pensavo sarebbe stato facile, ma il marketing scarta quello che non si vende facilmente».
Ci sarà mai una serie dal film?
«No. Audrey Tautou non ha più l’età giusta e non potrei immaginare nessun’altra nel ruolo. E sarebbe impossibile girare a Parigi, oggi così brutta, zeppa di cantieri. Mi hanno fatto tante proposte, ma non voglio mettere mano a qualcosa che è perfetto».