il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2021
Rock of Wall Street. Vendonsi cataloghi musicali
I lupi di Wall Street stanno azzannando la storia del rock. A suon di milioni, beninteso. L’offensiva dei venture capitalist per acquisire i cataloghi delle star ha ormai la silhouette di una bolla speculativa che, stando agli analisti, non si sgonfierà prima di cinque anni. O finché incanutiti cantautori e mature band dal consolidato appeal saranno disponibili a cedere i proventi dei diritti sul proprio repertorio.
Gli obiettivi privilegiati sono già caduti davanti a offerte irrinunciabili. Da Bob Dylan a Neil Young, da Paul Simon ai Blondie fino ai Red Hot Chili Peppers (è storia di pochi giorni fa) e persino i più giovani Imagine Dragons: tutti pronti a firmare accordi lucrosi. Meglio tanti, maledetti e subito che l’incertezza delle previsioni di bilancio post-pandemia, con i live bloccati e gli streaming di YouTube o Spotify che ti ritornano un niente ad ogni clic.
Bisogna pensare al futuro, anche se una buona parte di vecchiaia ce l’hai già alle spalle. Rimpinguando il conto corrente dall’oggi al domani, anche per evitare che, dopo morto, nei caos testamentari, gli eredi si scannino attorno a quel che hai guadagnato in una gloriosa carriera, come teme la regina del country-pop Dolly Parton. Prendete David Crosby: lui un “vendesi” virtuale lo aveva appeso su Twitter appena fiutato il vento: “Si prendano il mio catalogo, anche se non vale milioni come quello di Dylan. Non ho scelta: non posso lavorare, e le piattaforme digitali stanno rubando i miei soldi. Ho una famiglia e un mutuo: devo prendermi cura dei miei cari, questa è l’unica opzione. Sono sicuro che anche altri siano nella mia stessa situazione”. Detto fatto: prima che si materializzasse “l’incubo di dar via le chitarre e la casa”, l’eroe di Woodstock ha ceduto le sue canzoni alla Iconic Artists Group, per una cifra mantenuta riservata. Di certo non avrà pareggiato il tesoretto assicurato a Dylan (che tra due settimane compirà 80 anni) dalla divisione publishing della Universal: 400 milioni di dollari per 600 canzoni. Record assoluto, a meno che una cifra simile, anche questa non rivelata, sia stata raggiunta da Paul Simon con il passaggio dei diritti alla Sony. Attenzione: in questi due casi parliamo di mosse delle multinazionali discografiche, che in un momento di crisi del settore corrono ai ripari – più o meno tardivamente, visto che la sola Warner si è già votata all’azionariato, mentre Universal entrerà in Borsa nel 2022 e Sony tuttora nicchia – prima di farsi surclassare dall’attacco delle società quotate create ad hoc.
Il più aggressivo tra i fondi di investimento è Hipgnosis Song, creato nel 2018 da Merck Mercuriadis, ex manager di Elton John, Guns N’ Roses e Beyonce: il suo socio è Nile Rodgers, il genio dietro i riff disco degli Chic. La missione di Hipgnosis è accaparrarsi le proprietà intellettuali dei big musicali e guadagnare con le royalty di brani leggendari, attraverso esecuzioni dal vivo e su ogni media. Un investimento più sicuro del mattone: anche fra decenni quelle canzoni risuoneranno da qualche parte. Il fondo, con sede nel paradiso fiscale di Guernsey, ha fatto ingresso a Wall Street puntando sull’azionariato: oggi la sua capitalizzazione di mercato supera il miliardo di sterline, sei volte più di quanto dichiarato all’atto della costituzione. Dispone di un “archivio diritti” da 45 mila brani: tra questi metà del catalogo solista di Neil Young (comprato per 150 milioni di dollari), della leader dei Pretenders Chrissie Hynde e, con le firme ancora fresche di inchiostro, quelli dei Red Hot Chili Peppers (140 milioni) e dell’autore di punta dell’urban pop contemporaneo Andrew Watt. Per Hipgnosis c’è da superare la concorrenza di altri fondi: come Eldridge (già nel cassetto i diritti sui The Killers), Concord Music Publishing (100 milioni agli Imagine Dragons) o Primary Wave (l’80 per cento delle creazioni di Stevie Nicks, ex cantante dei Fleetwood Mac, mentre il collega di band Lindsey Buckingham ha optato per il solito Hsf).
Perché proprio ora questa corsa al filone d’oro di rock e pop? Questioni di tassi di interesse, mai così bassi, e dell’inflazione che mostra grafici piatti. Ma bisogna affrettarsi: negli Usa, cuore del business, Biden minaccia di alzare le imposte su questi introiti.
Occorre essere lungimiranti: come lo fu Michael Jackson nel 1985, quando comprò i diritti sulle opere dei Beatles firmate Lennon-Cartney. Un esborso di 47,5 milioni di dollari per Jacko, che divenne azionista di maggioranza della società detentrice, la Atv. Paul commentò la mossa dell’amico come “una pugnalata alle spalle”: i due avevano più volte duettato armoniosamente. Michael sostenne di essersi solo voluto impadronire, “in modo sentimentale, di qualcosa che apparteneva alla storia”. Nel 1995 rivendette metà delle quote per 100 milioni, e dopo la sua morte, nel 2016 il Jackson Estate cedette il resto per altri 750 milioni. Alla Sony. Due anni più tardi McCartney e Yoko Ono si ripresero quel che era stato loro. Sui numeri dell’accordo finale è stato mantenuto il segreto.