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 2021  maggio 07 Venerdì calendario

Calcio in guerra, Milano e la lunga notte del ’44

In queste storie che si incrociano su un campo di pallone, scoprirete solo leggendo che aleggia un volto cinematografico, quello di un bomber dal cuore Toro: Raf Vallone (19162002), l’eroe delle domenica di Mario Camerini, prima prestato al giornalismo (capo a Torino delle pagine culturali dell’Unità) e poi all’universo stellato di celluloide. Rimanendo ancora seduti davanti al grande schermo, se il regista ferrarese Florestano Vancini (1926-2008) avesse letto queste storie di cuoio, forse avrebbe spostato di un anno la data che compare nel titolo del suo film più celebre, La lunga notte del ’43. E forse, al posto di Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, avrebbe inserito l’altrettanto assai poco nota cronaca di “Juventus-Milano del ’44”. Una vicenda che va oltre i 90 minuti della partita di pallone diretta dal «buon arbitro Marchetti», perché si tratta del maggiore rastrellamento ordito dai nazifascisti a Milano. Un caso, rimasto ancora oggi «misterioso». A sciogliere, almeno in parte, l’arcano, c’hanno provato due fini narratori di sport – e di cinema – di lungo corso, Davide Grassi e Mauro Raimondi che nel loro enciclopedico quanto intenso
Un calcio alla guerra( Milieu. Pagine 221. Euro 17.90), raccontano di uomini di sport che hanno combattuto al fronte, hanno tentato di fare Resistenza ai totalitarismi dominanti, e molti di loro si sono dovuti arrendere fino a pagare con la vita. Formazioni di “sommersi e salvati”, appartenenti per lo più alle tribù del calcio del secolo scorso. E allora, nella domenica, la prossima, in cui allo Stadium di Torino va in scena la sfida nobiliare Milan-Juventus, ricordiamo quella domenica del 2 luglio 1944. Una maledetta domenica per quei «Trecento», presunti, rastrellati. Trecento tifosi che abboccarono all’esca velenosa lanciata dai tedeschi che avevano occupato Milano. Con la complicità dei gerarchi fascisti, all’Arena Napoleonica (lo stadio di Inter e Milan e del primo match degli Azzurri nel 1910) si erano inventati questa partita, probabilmente al solo scopo di «razziare tra gli spettatori manodopera giovane e produttiva da inviare al lavoro coatto in Germania», scrive lo storico dello sport Sergio Giuntini in prefazione al libro di Grassi e Raimondi. Una amichevole di lusso, organizzata in uno scenario irreale, alla quale almeno in 6mila spettatori (stadio semivuoto) risposero nella speranza di vivere un pomeriggio di normalità, mentre l’Europa e la stessa Milano venivano messe a ferro e fuoco. «L’Arena in un secolo e mezzo di vita ne aveva viste tante. Naumachie, manifestazioni politiche, perfino Buffalo Bill e gli indiani. Ma questa nuova storia le mancava. E ne avrebbe fatto volentieri a meno», spiegano i due autori che hanno ricostruito nel dettaglio quella giornata particolare, piena di anomalie. A comincia- re dagli eroi della domenica che scesero in campo. Basti pensare che la leggenda dell’Ambrosiana Inter, il due volte campione del mondo (nel 1934 e nel ’38) Giuseppe Meazza – che nel ’44 passò dal Varese all’Atalanta –, quel giorno indosssava la casacca bianconera della Juventus. In porta, nel secondo tempo subentrò (al posto di Sentimenti IV schierato in attacco) un’altra bandiera dell’Ambrosiana, la “Pantera Nera” Giuseppe Peruchetti: la saracinesca umana la cui imbattibilità di 749 minuti ha resistito per 79 anni. Un caso rarissimo, Perruchetti, dopo aver appeso i guanti al chiodo e messosi ad allenare (l’Ambrosiana) nel 1941 tornò a giocare per difendere i pali della Juventus. Quella all’Arena fu la sua ultima apparizione, poi nell’autunno del ’44 si aggregò alla squadra dei partigiani della Seconda Divisione Langhe dove strinse rapporti fraterni con lo scrittore Beppe Fenoglio e il “Comandante” Paolo Farinetti. Arrestato in novembre, il Tribunale speciale ne aveva sentenziato la condanna a morte, ma Peruchetti riuscì a scampare a quel destino comune a molti suoi compagni di battaglia e la notizia dell’avvenuta liberazione glie la diede l’amico ed ex compagno di Nazionale Eraldo Monzeglio, meglio noto fuori dai campi di calcio come il “maestro di tennis” del Duce. Mussolini intanto, il 15 luglio del ’44 partiva per Rastenburg, Prussia orientale, per incontrarsi con il Führer. E lì nella Tana del Lupo si consumò l’ultimo faccia a faccia con il famelico alleato Hitler che scampò a un attentato in cui doveva morire anche Mussolini. Il giorno dopo quel summit finale, il 16 luglio, all’Arena di Milano si sarebbe disputata la finalissima dello «scudetto mai assegnato» del ’44. L’altra storia, quella dei Vigili del Fuoco di La Spezia che sconfissero (2-1) il Grande Torino, per chi non la conoscesse va “riletta” nel bel romanzo di Marco Ballestracci, Giocare col fuoco (Mattioli 1885. Pagine 286. Euro 14,00). Ma prima, torniamo alle due settimane precedenti e a quella sfida pilotata, vinta nettamente (5-0) dalla Juventus contro il Milan fascistizzato in “Milano”. La stampa sportiva ( La Gazzetta) e i vari quotidiani milanesi (a cominciare dal
Corriere della Sera) il giorno dopo diedero il giusto risalto all’evento con i classici commenti tecnici, ma omisero di raccontare il drammatico fine partita. Al triplice fischio, intorno alle ore 17, furono sparati dei colpi in aria e l’altoparlante dello stadio annunciava: «Per ordine del comando tedesco, tutti gli uomini della classi 1916-1926 devono radunarsi all’ingresso Nord». Dal diktat di presentarsi
davanti alle SS – documenti in mano – vennero esentate le donne e i bambini, gli altri, i fermati, vennero caricati su 15 camion della Todt e condotti nella zona industriale della Bicocca. Ma quanti erano coloro che non fecero più ritorno dalle loro famiglie? Sul numero e la sorte dei rastrellati per due giorni rimase all’oscuro persino il prefetto di Milano Parini, il quale scrisse una lettera riservata a Mussolini in cui denunciava: «Dopo questa operazione, i già ben noti sentimenti antitedeschi dei milanesi si sono notevolmente rafforzati». L’odio e la sete di vendetta vennero immediatamente placati dal generale plenipotenziario Toussaint che in accordo con il federmaresciallo Kesserling e il Gruppenfuhrer SS Wolff «ordinò di sospendere quelle azioni incontrollate di cattura dei lavoratori per l’impiego nel Reich». Grassi e Raimondi non si sono fermati qui, hanno setacciato l’Archivio di Stato di Milano-Ufficio milanesi dell’assistenza post-bellica, per capire quanti furono e cosa accadde ai “sommersi” dell’Arena. E così sono risaliti ad almeno 52 possibili «trasferiti» o forse deportati oltralpe, tra il 3 e il 15 luglio del ’44. Il mistero rimane, ma l’invito a continuare la loro opera rende Un calcio alla guerra un saggio storico ancor più meritorio. «Il nostro obiettivo è proprio questo, partendo da quel Milan-Juve, rafforzare la memoria su episodi che hanno visto il calcio protagonista anche durante il periodo della Seconda guerra Mondiale e soprattutto della Resistenza». In un’Italia spezzata in due, a Nord partigiani tedeschi e Repubblica di Salò, a Sud gli alleati angloamericani, eccoci al 16 luglio, rimanendo sempre all’Arena di Milano per quella fantasmagorica finale tricolore. Ennesima incongruenza: il Torino “marcato” Fiat (da sempre casa madre dei cugini bianconeri che, nel ’44, invece erano denominati Juventus Cisitalia) affrontava i sorprendenti calciatori del 42° corpo dei Vigili del Fuoco di La Spezia. Una squadra messa in piedi dopo che Coriolano Perioli, presidente dello Spezia calcio era stato deportato nel campo di concentramento di Gusen: il prigioniero “Schutz” accusato di collaborazionismo con i comitati di Liberazione non farà mai più ritorno. Così come quel 16 luglio a Milano all’appello di mister Ottavio Barbieri mancavano i due fratelli Incerti, Walter e Riccardo. Quest’ultimo il 18enne portierino di belle speranze ricevette la chiamata alle armi (Car a Viterbo). Ma dopo due mesi disertò e raggiunse il fratello Walter per entrare a far parte della Brigata Garibaldi. Sull’Appenino reggiano, imbracciati i fucili, Walter divenne il partigiano “Vince”, mentre Riccardo prese il nome di battaglia di “Toni”, «da “Tognacca”, il pagliaccio del circo, «così come amava chiamarlo la madre», recitava a teatro Gianfelice Facchetti nello spettacolo Eravamo quasi in cielo. E lassù, in cielo, volarono via, entrambi uccisi nell’ottobre del ’44: Walter e Riccardo (il cui corpo non fu mai ritrovato) furono vittime di un’imboscata dei tedeschi in località Sparavalle nei pressi di Castelnovo né Monti. Stava per fare la stessa fine anche il nostro “spettro” guida, Raf Vallone. Fino al 41’ il bel tenebroso di Tropea aveva indossato la maglia granata del Torino e dopo l’Armistizio del ’43 si era dato alla macchia prendendo parte alla Resistenza nelle fila di Giustizia e Libertà. Scampato alla deportazione, Vallone tuffandosi nelle gelide acque del lago di Como evase dal carcere e in clandestinità il futuro protagonista di Riso amaro apprese della clamorosa sconfitta subita dal Grande Torino ad opera di quei piccoli eroi spezzini che illuminarono la lunga notte buia del ’44.