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 2021  maggio 06 Giovedì calendario

La parabola di Davigo

Sarebbe stato formidabile assistere a un paradosso e vederlo interrogare se stesso. Chissà come il pm Davigo, che da decenni predica una teoria molto somigliante alla presunzione di colpevolezza, avrebbe incalzato il testimone Davigo per far emergere le contraddizioni sulla storiaccia dei verbali segretissimi consegnati nelle sue mani e successivamente dossierati a giornali e giudici dalla sua ex segretaria. La sua retorica fulminante, efficace nelle aule dei tribunali come nei salotti televisivi grazie all’abilità nell’incastonare sapienza giuridica, dati statistici, dotte citazioni e aneddoti arguti, non ha quasi mai trovato un contraddittorio all’altezza. Ora però si ritrova a essere persona informata di fatti che dopo 42 anni di onoratissima carriera rischiano di renderlo il portatore sano del virus in grado di infliggere un colpo micidiale alla credibilità della magistratura. Una definizione che di sicuro indignerà Piercamillo Davigo, sempre pronto a discutere ma raramente a mettersi in discussione.
Poteva essere una rimpatriata tra ex e invece il corto circuito innescato da questa vicenda obbliga vecchi colleghi milanesi a rivestire parti conflittuali. Con il pm Paolo Storari che in contrasto con il suo capo Francesco Greco affida a Davigo le carte più segrete di tutte; con l’interrogatorio della procura romana in cui è aggiunto Paolo Ielo, un tempo il “giovane del pool”, e l’intervento di quella bresciana guidata da Francesco Prete, pure lui impegnato nel 1992 nelle inchieste di Tangentopoli. E tutto ruota intorno a Davigo, terminale di fogli coperti dal segreto istruttorio seppur in copia non firmata, cosa che offre alla sua fama di “PierCavillo” la possibilità di sottrarsi alla macchia di venire indagato, rivendicando di avere agito sempre e solo per giustizia. «Posso dire – ha scritto nel primo dei suoi libri – che non mi è mai stato imposto, chiesto, o vagamente suggerito di fare qualcosa che potesse essere in contrasto con la mia coscienza».
Il pavese di Candia Lomellina lo fa dal 1978, quando arriva con la determinazione del provinciale nel palazzo milanese come uditore di Emilio Alessandrini, ucciso poco dopo dai terroristi di Prima Linea, e respira il clima di «uno Stato che si richiudeva in sé tremante di paura di fronte a un pericolo che poi si è dimostrato, tutto sommato, piuttosto contenuto. Nel panico generale gli unici che sembravano mantenere una certa lucidità erano i magistrati».
Dagli anni Ottanta si è imposto come protagonista: ha gestito istruttorie clamorose, dalle tangenti delle “Carceri d’oro” al pentimento del boss Angelo Epaminonda. L’ingresso nel pool voluto da Francesco Saverio Borrelli è una consacrazione: diversissimo da Antonio Di Pietro, insieme ne diventano il “braccio” e “la mente”. Distante da Gherardo Colombo, tanto da confrontarsi poi in un dialogo intitolato “La tua giustizia non è la mia”. E pure da Francesco Greco, l’attuale procuratore noto per l’indole cauta e la tradizione garantista, agli antipodi rispetto a Davigo. Non a caso il pm Storari sospettando il primo di i nsabbiamento si è rivolto proprio al secondo, consegnandogli le rivelazioni del luciferino Piero Amara. Rispetto a quei colleghi, Davigo ha una concezione conservatrice, molto poco positiva nei confronti dei cittadini italiani. «L’unico Paese che parla male di se stesso persino nell’inno nazionale – ha dichiarato in una delle frequenti interviste a “di Martedì” –. All’epoca di Mameli c’era una nota di speranza, adesso si è affievolita. Gli italiani continuano a essere divisi per fazioni, legati solo al loro campanile. Con un atteggiamento che il più delle volte per me è incomprensibile».
Finché è stato solo un magistrato, in procura come in Cassazione, difendendo a spada tratta inchieste e idee, ha mantenuto a pieno titolo il suo posto sul piedistallo. Altro è stato entrare nel Csm e cercare di imprimere una svolta all’intera magistratura. Forse si era convinto che l’Italia stesse cambiando, che nel M5S e persino in parte della Lega si potesse materializzare quella severità che invocava da tanto tempo. Nel volume che pubblica per il Fatto, prefazione di Marco Travaglio, si definisce infine “giustizialista”. Crea una sua corrente, stravolgendo ogni equilibrio del Palazzo dei Marescialli, promettendo una rifondazione dura e pura. Ma qualsiasi governo e soprattutto quello delle toghe implica una titanica predisposizione alla mediazione e al compromesso, mentre la forza di Davigo è tutta nel suo essere un’eccezione rigorosa: «Io non ho bisogno del consenso, non faccio politica. I magistrati hanno legittimazione nella legge, non nell’elezione».
Avendo contestato la norma renziana che mandava in pensione i giudici a 70 anni, allo scadere del termine ha impugnato ogni strumento legale per restare almeno al Csm. Una scelta di risoluta coerenza, in cui si è ritrovato totalmente solo, trattato alla pari del più bieco burocrate attaccato alla poltrona. Neppure la corrente che aveva fondato lo ha sostenuto; nemmeno Sebastiano Ardita che pareva l’ultimo pupillo tanto da firmare insieme proprio il libro-manifesto “Giustizialisti” e che nei verbali di Amara viene bollato come affiliato dell’incredibile loggia dei massoni in toga e cappuccio. Calunnie, che però forse avranno portato Davigo a ripensare a una delle sue frasi più citate: «Noi magistrati siamo come i cornuti: siamo gli ultimi a sapere le cose, perché le scopriamo solo quando partono i processi».
Difficile prevedere l’epilogo. Se Storari, pm integerrimo cresciuto alla scuola di Ilda Boccassini, e Davigo ne usciranno come Totò e Peppino nella “Banda degli Onesti”: puliti nonostante abbiano commesso un atto in apparenza illecito. O se il labirinto di inchieste già scaturite dal passaggio di carte segrete si tramuterà nel grimaldello perfetto per tanti politici interessati a scardinare la procura di Milano e l’intera autonomia delle toghe. Come la terribile nemesi dell’inquisitore della “Colonia penale” di Franz Kafka, intrappolato nella macchina che lui stesso aveva realizzato per comminare le pene in modo esemplare e che invece finisce per stritolarlo negli ingranaggi ormai logori.