La Stampa, 6 maggio 2021
Intervista a Pasquale Tridico
Rider, pensioni, salario minimo, ammortizzatori universali, sicurezza sul lavoro. «È tempo di ridisegnare il welfare italiano». Pasquale Tridico, presidente dell’Inps, ha in mente una copertina dei primi di marzo dell’Economist dove una quindicina di persone guardano in alto reggendo un telo elastico dei pompieri, in attesa che qualcuno salti. In quel reportage, il settimanale inglese auspicava la creazione di una rete sociale per il nuovo mondo post Covid. «I principi del welfare novecentesco sono da ridiscutere e noi siamo già avanti perché abbiamo iniziato a farlo affrontando la pandemia».
Presidente, cosa è cambiato in questo ultimo anno?
«Con l’emergenza abbiamo scoperto che i sussidi servono pure agli autonomi, non solo ai poveri. Poi è stato evidente che la cassa integrazione non poteva essere destinata esclusivamente alla categoria del lavoro dipendente, e infatti un’indennità è stata erogata alle partite Iva e ai lavoratori discontinui del turismo e dello spettacolo. Quindi le politiche attive, che riguardano tutti. Le parole chiave sono flessibilità e semplificazione».
Che modello ha in mente?
«Il sistema di welfare del futuro deve essere più inclusivo e universale. Ai lavoratori occorre garantire una formazione continua, conoscenze e competenze per rimanere sempre agganciati al mercato. Il mondo sta ripensando un ruolo dello Stato diverso, più incisivo nella sanità e nel sostegno a famiglie e imprese. Perché ogni crisi rappresenta una rottura rispetto al passato».
Secondo lei il Pnrr contiene questa visione?
«Il Piano nazionale di ripresa e resilienza darà una spinta pubblica agli investimenti grazie all’insegnamento di Keynes e ci condurrà nella modernità e nell’innovazione nel segno di Schumpeter. Usciremo dalla crisi con il pensiero di questi due grandi economisti. Anche in America finalmente si ragiona su una tassazione globale sui capitali, mentre l’Europa sta provando a fissare regole standard sul lavoro che evitino dumping e delocalizzazioni. Il salario minimo è la giusta direzione da seguire».
Il Recovery plan affronta tutte le riforme che servono al Paese ma non dice nulla sulla previdenza. Nel testo finale è saltato il riferimento di Quota 100. La professoressa Fornero, intervenendo su questo giornale, si aspettava un impegno preciso del governo a non rinnovarla. Che bilancio fa di questa misura?
«Che il Recovery non si occupi di pensioni non deve stupire e Quota 100 ha un pilota automatico che si autodistrugge. È una riforma sperimentale, durava tre anni e finisce al 31 dicembre, non c’è nulla da aggiungere».
Così però scatta lo scalone che dal 2022 sposterà l’uscita da 62 a 67 anni.
«Non è corretto portare sempre il discorso sullo scalone. Dopo Quota 100 non c’è la fine del mondo, ci sono diverse misure di flessibilità da ampliare: l’Ape sociale, i precoci, gli usuranti».
Qual è la sua proposta?
«Andare in pensione dai 62-63 anni solo con la quota che si è maturata dal punto di vista contributivo. Il lavoratore uscirebbe dunque con l’assegno calcolato con il contributivo e aspetterebbe i 67 anni per ottenere l’altra quota, che è quella retributiva. Poi è necessario tutelare i fragili, come gli oncologici e gli immunodepressi, che nella fase post Covid devono poter andare in pensione prima».
Cgil, Cisl e Uil bocciano questa idea perché temono assegni troppo bassi. Come risponde?
«Penso che con i sindacati si possa trovare una convergenza. Se pagassimo subito tutta la pensione, indipendentemente dai contributi, a 62-63 anni, verrebbe meno la sostenibilità finanziaria. La mia è una proposta aperta ad altri innesti, che il ministro Orlando sta valutando, come la staffetta generazionale o le uscite parziali con il part-time. Ma non possiamo tornare indietro rispetto al modello contributivo. Il sistema previdenziale italiano è stato scolpito da due grandi riforme: la Dini del ’95 e la Fornero nel 2011. È quello il nostro impianto ed è proprio qui dentro che dobbiamo incrementare i livelli di flessibilità, tenendo presente che abbiamo bisogno di equità e sostenibilità».
I sindacati vogliono il blocco dei licenziamenti fino al 31 ottobre, mentre l’esecutivo ha fissato due scadenze: giugno e appunto ottobre. Come valuta questo dibattito?
«Ci vuole gradualità e prudenza, sia il governo precedente che l’attuale hanno fatto la scelta più saggia in un momento così drammatico».
Sono anni che si parla di tutele per i rider ma ancora non c’è una normativa chiara a livello nazionale, cosa ne pensa?
«È un tema che mi appassiona, stiamo lavorando con il ministro Orlando per dare diritti a questi lavoratori che in molti casi lavorano a cottimo e questo non dovrebbe essere permesso. Sono persone che corrono per strada per fare più consegne possibili, rischiando infortuni gravi. Sono spesso considerati autonomi, ma nella realtà sono etero-organizzati e andrebbero protetti in quanto tali. In assenza di un contratto, la legge 128 del 2019 ha fatto passi avanti e prevede per queste figure tutele simili ai lavoratori dipendenti. Però nella realtà vediamo che troppo spesso i rider rimangono senza contributi pagati né assicurazione Inail, perché tenuti sotto la soglia della prestazione occasionale o a partita Iva. Il ministro Orlando ha un progetto per estendere davvero i diritti e all’Inps lo stiamo supportando».
Tornano a crescere le morti sul lavoro. Cosa si può fare di più per la prevenzione?
«La riforma degli ispettori del 2015 necessita di una revisione perché non ha prodotto buoni risultati né sulla vigilanza degli infortuni nè sulla lotta all’evasione. Il testo unico sulla sicurezza del 2008 di Cesare Damiano è una buona legge, ma 13 anni dopo c’è l’esigenza di intervenire sulla prevenzione e stabilire maggiori controlli». —