La Stampa, 5 maggio 2021
Un’altra intervista a Woody Allen
Usi e costumi in tempo di pandemia. Uno fra più grandi registi della storia del cinema concede interviste via Zoom dal salotto di casa. Dopo aver visto il suo ultimo gioiello, Rifkin’s Festival (da domani nelle sale con Vision Distribution), viene in mente che una situazione così potrebbe finire in uno dei suoi film. Più passa il tempo e più Woody Allen riesce ad annullare le distanze tra se stesso e il cinema, tra le sue idee e quelle dei suoi alter ego (stavolta Wallace Shawn), tra la sua visione del mondo e quella che emerge, nitida e realistica, dalle sue pellicole.
Il cinema riuscirà a sopravvivere al Covid?
«Dal mio punto di vista il modo migliore, e più divertente, per vedere un film è andare in un cinema, sedersi insieme a un sacco di altra gente e vivere le stesse emozioni guardando il grande schermo. Guardare film, da soli o con altri, sul divano, sul cellulare, sul computer, anche in tv, è la negazione dell’intera estetica del cinema».
Il Covid provocherà cambiamenti nelle relazioni umane?
«Credo che, fondamentalmente, ritorneranno come sono sempre state. Ci saranno mutamenti di altro tipo, persone che sceglieranno di vivere in luoghi diversi, non andranno più in ufficio, ma, per il resto, la gente manterrà gli stessi desideri, le stesse ambizioni, le stesse debolezze. L’esperienza umana resta la stessa».
Come vede la situazione politica americana dopo l’elezione del presidente Biden?
«Credo che Biden sia un buon presidente, con delle buone idee che possono essere implementate dalla collaborazione con l’opposizione. Si è insediato in un momento caotico e dal, suo arrivo, le cose sono cambiate, la pandemia è stata contenuta, i dati stanno scendendo sensibilmente, aprono ristoranti, scuole, teatri. Biden è al posto giusto, mi piace come essere umano ed è un politico molto capace».
Com’è andato il lockdown?
«Per me non è cambiato molto. Mi svegliavo la mattina, stavo a casa, lavoravo, mi esercitavo al clarinetto e, naturalmente, seguivo la tragedia dei tanti colpiti dalla malattia. Di sera non potevo uscire ma, nel complesso, non c’è stato, nelle mie abitudini, un mutamento radicale».
Nei mesi scorsi è uscito il suo libro A proposito di niente (La Nave di Teseo). Meglio scrivere un libro o dirigere un film ?
«La struttura del lavoro è la stessa. Trovo, però, che scrivere un libro sia molto più faticoso, forse perchè sono cresciuto senza leggere molto ma andando molto al cinema e così il mio naturale istinto mi spinge verso atmosfere più cinematografiche che letterarie. Il cinema non si fa d’istinto, ma sul set so sempre esattamente cosa voglio fare e come. Nello scrivere, invece, devi sempre scegliere tra le mille possibilità offerte dalle parole. Quando fai un film hai limitazioni finanziarie, climatiche, fisiche, un sacco di gente intorno. Quando scrivi un libro sei da solo e puoi fare tutto quello che vuoi. Eppure per me girare un film è mille volte più facile che scrivere un libro».
Il regista di Rifkin’s Festival interpretato da Louis Garrel è antipatico e supponente. È il suo modo di vedere i colleghi?
«No, ci sono tanti tipi di registi, pochi bravissimi, altri terribili, molti nel mezzo, che non sono geni, ma fanno buoni film, pur non essendo nè Fellini, nè Welles, nè Bergman. E poi, certe volte, ci sono registi con un talento incredibile che la gente sa subito riconoscere».
Il personaggio di Mort Rifkin, affidato a Wallace Shawn, ha problemi di salute legati a una crisi creativa. Le capita di sentirsi così?
«Vengo sempre accusato da famiglia e amici di trasformare la mia ansia creativa, le mie ambizioni, in sintomi di problemi medici, così ho la reputazione di essere ipocondriaco, ma non lo sono. La verità è che quello che racconto viene dalla mia diretta esperienza, per questo posso scriverne».
Nel film parla anche di Dio, se le capitasse di incontrarlo che cosa gli direbbe?
«Non sono un suo grande fan, penso che sarei molto sgarbato con lui, gli chiederei “ma come sei riuscito a fare tutto quello che hai fatto?"».
Rifkin’s Festival è un inno al grande cinema europeo. È così diverso da quello americano?
«Dopo la II guerra mondiale il cinema europeo era più maturo e innovativo dal punto di vista artistico. In Usa il cinema era ancora infantile, guidato principalmente dalla logica dei profitti. I film europei erano quindi più amati, per la tecnica e per i temi affrontati. Sono cresciuto in quell’epoca, quando tutti volevano vedere i film europei e non americani».
Che cosa pensa delle serie tv?
«Non le vedo mai, e non per un particolare principio religioso, so, anzi, da amici, da mia moglie, da mia sorella, che ce ne sono di ottima qualità. Ma in tv preferisco lo sport, il baseball, i notiziari».
Lavora al prossimo film?
«È già pronto, avrei dovuto girarlo l’anno scorso a Parigi, ma il Covid ha cambiato i piani, appena sarà possibile lo riprenderemo. È una storia nello stile di Match Point». —