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 2021  maggio 05 Mercoledì calendario

I duecento anni di Napoleone


Confessiamolo: chi di noi ha mai riletto veramente il Cinque maggio, dopo averlo odiato e sbeffeggiato a scuola? Invece varrebbe la pena di rileggerlo, soprattutto adesso, nel bel mezzo delle ridicole polemiche sull’opportunità di celebrare il bicentenario di Napoleone oppure cancellarlo dalla memoria collettiva, come bambini arrabbiati che strillano «Brutto, non ti voglio più vedere!».
Varrebbe la pena perché Manzoni aveva già detto tutto. Che quello era stato un uomo del destino, uno di quegli uomini che nascono poche volte nel corso dei millenni, e chissà quando mai ne nascerà un altro: e non immaginava, Manzoni, le tragiche parodie di Napoleone che avrebbero preteso di guidare il mondo nel Ventesimo secolo. Che era stato vergognosamente adulato quando era in trono, e altrettanto ignobilmente calunniato dopo la caduta nella polvere. Che si era coperto di gloria sui campi di battaglia, perché è lì che si conquista quella che l’umanità chiama gloria: e tuttavia noi dobbiamo chiederci se non ci sia in questo un drammatico equivoco («Fu vera gloria?»). Che era stato follemente ambizioso, ma dietro l’avidità di potere aveva lasciato intravvedere «un gran disegno». Che la sua epoca aveva atteso da lui la risposta alle proprie speranze e alle proprie ansie; e lui quella risposta l’aveva data. Che proprio per questo aveva suscitato un odio irriducibile e un amore disperato. E che la sua morte non poteva non lasciare attoniti, e non commuovere, e non indurci a riflettere e a discutere: esattamente il contrario di quel che vorrebbero i censori di oggi.
E dunque discutiamone. Napoleone è stato odiato? Certo. Lo odiavano i nostalgici dell’Ancien régime, i nemici della Rivoluzione, della liberté e dell’égalité, che gli hanno fatto la guerra per vent’anni e hanno creduto alla fine di averlo sopraffatto e messo a tacere, salvo scoprire che dopo di lui il mondo non poteva più tornare quello di prima. Lo odiavano confondendolo con la presa della Bastiglia e col Terrore, come quella nobildonna tedesca che nel 1805, quando Napoleone invase l’impero asburgico, scriveva in una lettera: «Sono giunti i tempi dell’Apocalisse. Robespierre a cavallo attraversa l’Austria». Ma lo odiavano anche i vecchi giacobini che al contrario vedevano in lui il traditore della Rivoluzione e l’affossatore di tutte le sue speranze, dal sogno della democrazia a quello di un mondo senza religione e senza chiese: come il generale Delmas che dopo la sfarzosa riconsacrazione di Notre-Dame commentava: «Una bella cappuccinata! Mancavano solo i centomila uomini che si sono fatti ammazzare cercando di sopprimere questa roba».
E il fatto è che avevano ragione gli uni e gli altri. Perché Napoleone ha messo fine alla Rivoluzione, e ne ha rinnegato un grosso pezzo, e sulle ceneri della libertà ha creato un regime dispotico, poliziesco e militarista. Ma ha anche garantito l’eguaglianza davanti alla legge, l’istruzione pubblica, la fine delle discriminazioni religiose, la mobilità sociale e la promozione del merito, e sotto di lui i contadini analfabeti che prima del 1789 non erano ascoltati da nessuno venivano chiamati a votare ai plebisciti. Poi, si capisce, i prefetti arrangiavano i risultati: non era certo la democrazia come la intendiamo noi (era semmai, come disse un suo sostenitore, la democrazia purgata dei suoi inconvenienti). Ma la stagione ottocentesca dei plebisciti è stata un passo decisivo verso la modernità, e ha trasformato i sudditi in cittadini.
Napoleone è stato il simbolo di un mondo che cambiava, e cambiava in meglio, anche se in modo contraddittorio e a volte tragico, alternando i trionfi e i passi falsi e magari anche i crimini. Non vogliamo celebrarlo? Vuol dire che pensiamo di saperne di più di Hegel, che lo vide passare il 13 ottobre 1806 per le strade di Jena, alla vigilia d’una grande battaglia, e scrisse a un amico: «L’Imperatore, quest’anima del mondo, l’ho visto cavalcare attraverso la città per andare in ricognizione. In verità è una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, si irradia sul mondo e lo domina». E di Foscolo, che ha creduto in lui e poi è rimasto amaramente deluso, e per quella delusione ha fatto suicidare Jacopo Ortis, ma pochi anni dopo si è arruolato nell’esercito del regno d’Italia, e ha vestito la sua divisa. Loro sapevano che il punto non è se Napoleone, nel fondo del suo animo, fosse nobile o meschino, falso o sincero: il punto è che tutti i giovani della sua epoca vedevano incarnata in lui la speranza di cambiare il mondo.
E non solo la speranza, perché quel mondo Napoleone l’ha cambiato davvero, e alla fine ha vinto. Certo, ha perso la battaglia di Waterloo. Ma proviamo per un istante a immaginare come sarebbe cambiata la storia del mondo se a Waterloo avesse vinto Napoleone anziché Wellington. Be’, il ponte di Waterloo sarebbe a Parigi anziché a Londra, ma non è questo il punto. Per chi era vivo allora, molte cose sarebbero cambiate in modo drammatico. In Italia, le monarchie reazionarie dei Savoia e dei Borboni sarebbero state molto più caute nell’imporre la restaurazione dell’Ancien régime. I moti del Venti e del Ventuno non sarebbero stati soffocati così facilmente, a Torino e a Napoli i re avrebbero concesso la Costituzione senza rimangiarsela. Non ci sarebbe stato bisogno della Carboneria né delle bombe dei mazziniani.
Ma la reazione non avrebbe mollato l’osso facilmente, l’Austria avrebbe continuato a tenere stretto il Lombardo-Veneto e a sostenere il Papa-re, e prima o poi sarebbe arrivata la resa dei conti: e un Napoleone II, o un Napoleone III, fratello o nipote dell’«uom fatale», sarebbe sceso in Italia per liberare Milano e Venezia e permettere ai Savoia di creare un regno d’Italia: diciamo, a occhio e croce, verso il 1859... Come dire che la sconfitta di Napoleone è stata provvisoria, ha rallentato il corso che prima la Rivoluzione e poi l’impero avevano impresso alla storia, ma non l’ha deviata, ed è anche grazie a lui se in Europa alla lunga hanno trionfato il liberalismo e la democrazia. —