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 2021  maggio 05 Mercoledì calendario

In che Stato ci troviamo

La svolta è scritta in quei quasi 6 trilioni, 6 mila miliardi di dollari, che Joe Biden ha deciso di usare per aiutare l’economia americana. E in quei 750 miliardi di euro che compongono il Next Generation Eu. Ma si superano i 3 trilioni se si tiene conto di quanto sta facendo la Banca centrale europea per sostenere l’economia. Cifre impensabili 14 o 15 mesi fa. Quando cioè il Covid-19 inizia a far capire all’Europa e poi all’America che la sua devastante potenza rischiava di mettere in ginocchio l’intero Occidente prima e il resto del mondo poi. È come se tutti i paradigmi economici fossero stati di colpo resi meno stringenti. Mario Draghi ama ripeterlo spesso: è il momento di spendere. I problemi potrebbero esserci non se facciamo troppo ma se facciamo troppo poco.
Gli Stati tornano a farsi sentire. Lo Stato torna protagonista. E così la bandiera impugnata da Ronald Reagan e Margareth Thatcher quasi cinquant’anni orsono contro l’intervento pubblico, sembra meno salda. Gli effetti di questa sfida tra Stato e mercato si sono sentiti e si sentono ancora oggi. È innegabile che qualcosa sia accaduto da quel 2008, anno della crisi dei subprime; li ricordate? I pericolosi strumenti finanziari emessi in quel periodo che si definiva d’oro, quando il mercato secondo i suoi cantori sapeva esattamente come misurare il rischio e gestirlo. Il 15 settembre di quell’anno la Lehman Brothers dà uno scossone al mondo.
Undici anni dopo succede qualcosa di peggio. Una pandemia. Di colpo lo Stato ridiventa lo snodo per poter pensare di rispondere all’emergenza sanitaria e a quella economica in modo adeguato. C’era chi di questo non solo non aveva mai dubitato, ma aveva anche delineato compiti nuovi e ancora più decisivi per lo Stato affinché non solo l’economia potesse tornare a crescere, ma anche senza quelle distorsioni che hanno creato diseguaglianze e disagi.
Mariana Mazzucato insegna Economia dell’innovazione e del valore pubblico all’University College di Londra. Aveva iniziato a riunire, come spiega nel suo libro appena pubblicato (Missione economia. Una guida per cambiare il capitalismo, Laterza), «i leader delle organizzazioni pubbliche di tutto il mondo affinché ciascuno potesse imparare dagli altri, in particolare per capire meglio in che modo lo Stato può uscire dalla cosiddetta comfort zone in cui si limita a rimediare ai fallimenti di mercato e passa invece ad assumersi dei rischi creando e indirizzando i mercati». I suoi libri sono sicuramente controcorrente rispetto al mainstream che si era andato affermando dagli anni Settanta in poi grazie allo schiaffo Reagan e Thatcher. Con uno Stato da sospingere con fermezza e continuità fuori dai territori dell’economia.
Nei titoli c’è quasi tutto Lo Stato innovatore, del 2013, pubblicato in Italia nel 2014, Ripensare il capitalismo, del 2017, e i più recenti Il valore di tutto o Non sprechiamo questa crisi, prendono per mano lettori e pubblico disorientati dall’improvviso cambio di passo delle crisi, dalla loro profondità per tornare a dargli una certezza: lo Stato. Al quale però va dato uno scopo, una missione. Modificando il rapporto tra pubblico e privato «fra questi e la società civile, in modo che tutti lavorino insieme per un obiettivo comune».
Perché lo Stato? «Solo il governo ha la capacità di guidare la trasformazione con la forza necessaria», risponde Mazzucato nel suo Missione economia. E per capire fin dove si deve spingere lo Stato si pone la questione considerata chiave: «Se l’economia abbia o meno la capacità produttiva di fare buon uso del denaro che viene creato e messo in mano ai privati». Semmai è un problema di efficienza dello Stato che lavora a compartimenti stagni e non riesce a rendere comune la missione. Ma questo forse perché l’idea di un settore pubblico che negli ultimi 40 anni si è ritirato dall’economia non è così scontata.
La tendenza in realtà viene contestata da molti. L’ultimo in ordine di tempo è stato il capo stratega della Morgan Stanley Investment Management, Ruchir Sharma, dalle colonne del «Financial Times» dello scorso 25 aprile. Sharma spiega con qualche cifra perché si sia assistito invece a un’espansione della sfera pubblica. Deficit e debito in crescita continua sono lì a dimostrare quanto la spesa pubblica si sia allargata invece che ristretta. Le stesse crisi aziendali e relativi salvataggi sono passati dall’essere riservati a singole aziende, a interi settori come accaduto negli anni Ottanta e Novanta. Con la crisi del 2008, banche e automotive hanno goduto di importanti salvagenti pubblici. L’analista riporta come gli stimoli fiscali che nel periodo post Seconda guerra mondiale ammontavano al 4% del Prodotto interno lordo americano, salgano al 7% dopo la crisi finanziaria e al 13% oggi. E non è questione politica o partitica. I repubblicani di Reagan hanno «affamato la bestia» tagliando le tasse, ma non certo tagliando la spesa pubblica. Se non fosse stato per l’eccezione del democratico Bill Clinton, tutti i presidenti americani dagli anni Ottanta in poi avrebbero registrato un deficit.
Come ripetono spesso i critici degli studi di Mariana Mazzucato, a cominciare da Deirdre McCloskey e Alberto Mingardi che sul dibattito in questione hanno scritto un libro (The Myth of the Entrepreneurial State), si è trattato soprattutto di storytelling. Il racconto di un allontanamento dello Stato dall’economia, avvalorato da figure politiche come quella di Tony Blair o lo stesso Clinton, che in realtà non c’è stato. E soprattutto non ha avuto quel ruolo da innovatore come la studiosa afferma.
C’è tutto il fascino di una tesi in cui nello Stato si sostanziano le istanze di tutti, i diversi comparti si parlano e indirizzano. Ma la domanda resta sempre a chi va dato il compito della sintesi? Chi deve indirizzare lo Stato? In quel pubblico che tutto deve fare e deve preparare si sostanziano le tensioni tra una politica che vuole allargare la sua sfera di influenza e un’economia, e i cittadini, le imprese, le famiglie, gli individui che vogliono seguire propri percorsi, istinti. Lo Stato non è neutrale. Il fascino di una Cina che riesce a sconfiggere il Covid, ma che non riesce a dire al mondo quanti siano stati i morti per la pandemia, si scontra con l’immagine di quel Jack Ma che crea Alibaba e che viene costretto di colpo al silenzio.
È una bella storia, confortante, quella di un mondo dove tanti piccoli uomini e donne si ritrovano dentro un grande Stato sintesi di tutti noi che riuscirà a garantirci una vita migliore. La storia ci insegna che non è così. La forza delle democrazie occidentali è nell’esaltazione delle diversità, nella salvaguardia della persona, dell’individualità che poi, se riesce, si fa anche comunità. La nostra ricchezza sta tutta nella tensione continua tra differenti orientamenti, tra chi compete per trovare soluzioni che siano le migliori, è in questa continua ricerca che fiorisce l’innovazione. Nel capire che uno Stato consapevole della sua forza, sarà tale nel bene, ma anche nel male. Soprattutto se si troverà a gestire e inondare di migliaia di miliardi l’economia grazie alla possibilità di stampare denaro. I confini e scopi della sua azione dovranno essere quanto mai meditati.