La Stampa, 4 maggio 2021
Intervista a Ilaria Cucchi
«Quella di Stefano è una lezione di giustizia che passa drammaticamente attraverso l’ingiustizia: basti pensare che l’inizio della fine della sua vita è stata proprio in un’aula di giustizia, un tribunale, dove durante l’udienza di convalida nessuno ha voluto vedere le sue critiche condizioni fisiche conseguenti al pestaggio». Dare un senso alla morte del fratello, partendo dalla speranza che questi 12 anni possano aiutare le nuove generazioni a costruirsi una società migliore, in cui credere nello Stato e nelle sue istituzioni: è questo lo spirito di Stefano. Una lezione di giustizia, in uscita oggi per Fabbri, manuale di educazione civica per ragazzi scritto da Ilaria Cucchi e Andrea Franzoso, che hanno ripercorso l’intera vicenda di Stefano Cucchi spiegando, tappa per tappa, i diritti coinvolti e calpestati, le regole del sistema carcerario, il ruolo delle forze dell’ordine e il funzionamento del sistema giudiziario.È stato un libro emotivamente difficile da affrontare?«Scrivere per me è una sorta di terapia, io il lutto lo devo ancora rielaborare, quindi raccontare mi serve moltissimo. E da ogni singola parte di questa nostra storia cerco di trarre un insegnamento, qualcosa di positivo per non rendere inutile la morte di Stefano e la devastazione dell’esistenza mia e dei miei genitori. Non solo: in tutti questi anni la cosa forse più importante che sento di aver fatto è stata andare nelle scuole a confrontarmi con i giovani, a rispondere alle loro domande. Erano sconvolti da quello che è successo a Stefano e alla mia famiglia, ma non si accontentavano di ascoltare: volevano capire. Da qui la necessità di fornire uno strumento per comprendere e ragionare».Cosa significa fare educazione civica ripercorrendo tutte le fasi, dall’arresto al processo?«Significa dare un nome alle cose. Significa prendere consapevolezza dei propri diritti. Significa conoscere le regole che la società si è data per difendere tutti e non solo chi se lo può permettere. Ma significa soprattutto riflettere in ambiti che coinvolgono la libertà personale, il potere coercitivo, il diritto alla salute e tutti i singoli tasselli che compongono lo Stato di diritto. Non basta sensibilizzare gli studenti, bisogna anche informarli e formarli con le parole giuste, ed è quello che abbiamo tentato di fare».Dopo aver letto questo libro i giovani avranno più fiducia o più paura nei confronti dello Stato?«Sono convinta che ne usciranno con una maggiore fiducia nelle istituzioni, perché comunque la nostra storia insegna questo: siamo partiti da soli, siamo andati avanti a testa alta consapevoli di essere nella verità e nel giusto, stavamo rivendicando un nostro diritto e abbiamo continuato a rispettare quelle stesse istituzioni che ci avevano voltato le spalle. Siamo dovuti scendere in prima linea, ci siamo quasi dovuti sostituire allo Stato, ma alla fine le cose sono cambiate. Ed è questa la vera lezione di giustizia».Il vostro è un libro consigliato per le scuole: teme eventuali reazioni contrarie di insegnanti o genitori?«Onestamente penso di no. La battaglia che abbiamo portato avanti non è stata contro le istituzioni o contro le forze dell’ordine. Tutt’altro: è una battaglia che abbiamo fatto anche per loro, per gli uomini e le donne che quotidianamente indossano una divisa e lo fanno con onore e dedizione. E non meritano minimamente di essere accostati, nell’immaginario collettivo, a quella minoranza che si è macchiata di reati così gravi».Si è immaginato Stefano con questo libro in mano? Cosa avrebbe detto?«Sì, ci ho pensato, anche se avrei preferito averlo qua con me e leggerne un altro di libro, insieme come un fratello e una sorella. Ma la vita ci ha riservato tutt’altro destino. Forse, vedendo questo libro, avrebbe avuto la conferma che, pur se morto come un ultimo tra gli ultimi, la sua vita comunque contava qualcosa, aveva un valore. E noi riusciremo, tramite questa infinita sofferenza, a dare un un significato – se mai possibile – a tutto quello che è capitato». —