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 2021  maggio 04 Martedì calendario

Gli 80 anni di Quarto potere

Quarto potere compie ottant’anni. Il film con cui Orson Welles entrava nel cinema (dopo lo scandalo della Guerra dei mondi alla radio) iniziò il suo percorso il 1° maggio 1941 a New York City, poi il 6 a Chicago, l’8 a Los Angeles e quindi in altre città, fino al 5 settembre, quando fu distribuito in tutti gli Usa. William Randolph Hearst, che si credeva (a ragione) rappresentato nel protagonista Charles Foster Kane, stava tentando in tutti i modi di boicottarne l’uscita e la Rko che lo produceva pensò di preparare pubblico e stampa con una serie di anteprime a tappeto. L’effetto non ottenne i risultati sperati: solo un milione e mezzo di dollari di incasso (a fronte di più di 800 mila di costi), che impallidiscono a confronto, per esempio, dei 16 milioni del Sergente York con Gary Cooper. E su otto nomination un solo Oscar (per la sceneggiatura originale) da dividere con Herman J. Mankiewicz, con annesse polemiche sul vero autore, come ha raccontato Mank. Eppure ben presto il film si impose come un capolavoro (per molti «il più bello del cinema») non certo per la storia che racconta ma perché al di là del ritratto dell’homo americanus di cui Kane/Hearst incarnava le molte contraddizioni, metteva in discussione il modo tradizionale di filmare, aprendo il passaggio dal cinema «classico» al cinema «moderno». Perché Quarto potere distruggeva le regole su cui fino ad allora era costruita la grammatica del cinema. A cominciare dal fallimento del giornalista che doveva scoprire il senso dell’ultima parola di Kane («Rosebud», in italiano «Rosabella»), il film vuole affermare la difficoltà di trovare una verità che non sia anche contraddittoria. E lo fa proprio a partire dalle immagini, dalla loro non immediata decifrazione, coinvolgendo la totalità del fare cinema, non solo con la storia di una inchiesta che si concluderà con un nulla di fatto ma anche con le immagini che la raccontano. La profondità di campo che il regista chiede al direttore della fotografia Gregg Toland (mettendo a fuoco tutto quello che è all’interno dell’inquadratura e non solo ciò su cui il cinema fino ad allora voleva attirare l’attenzione) non insegue un maggior realismo ma piuttosto la creazione di una nuova «forma simbolica», capace di distruggere la gabbia prospettica del cinema classico per spingere lo spettatore a mettere in discussione le proprie certezze. Lavorando su diversi piani spaziali, utilizzando un grandangolo che allarga l’immagine non solo orizzontalmente ma anche verticalmente (mostrando spesso anche i soffitti, fino ad allora pochissimo inquadrati) Welles offre così allo spettatore una «libertà di sguardo» che il cinema non aveva mai offerto prima. E che insegnerà a tutti un nuovo modo di filmare.