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 2021  maggio 04 Martedì calendario

tifosi del calcio e i tifosi della vita

Ogni volta che il prato e soprattutto il cielo si tingono di nerazzurro, è facile pensare a un grande poeta e tifoso interista come Vittorio Sereni. Nel pieno del lockdown, con il campionato sospeso, Beppe Severgnini ricordò un componimento del poeta di Luino, datato 1935 e intitolato Domenica sportiva. Il testo prendeva spunto da una partita Ambrosiana Inter-Juventus («le zebre venute di Piemonte») e si concludeva così: «A porte chiuse sei silenzio d’echi / nella pioggia che tutto cancella». In effetti quante volte, quest’anno, abbiamo sentito quel «silenzio d’echi» rimbombante in noi dalla tv. Sarebbe però ripetitivo insistere con Sereni dopo la vittoria interista dello scudetto, se non fosse uscito di recente un libro che raccoglie i suoi scritti sportivi apparsi dal 1947 fino al 1983 (Il verde è sommerso in nerazzurri, Nomos edizioni di Busto Arsizio, a cura di Alberto Brambilla). Rispondendo nel 1964 a una domanda postagli dalla rivista «Pirelli», Sereni spiegava la sua idea di tifo sportivo. La domanda (un po’ ingenua) era: come fa un intellettuale ad appassionarsi e a prendere sul serio una partita di calcio? Non era difficile rispondere per chi la domenica restava in piedi, con un cuscinetto tra le braccia, a guardarsi la partita dalla gradinata di San Siro (lo racconta un esperto di letteratura e sport come Massimo Raffaeli). Dunque, dopo un lungo e finissimo elogio del suo idolo Meazza, Sereni dice che la «radice» del tifo è «nel punto in cui avverti il nesso tra il tuo carattere e la sembianza, la cifra che la squadra assume ai tuoi occhi, per analogia ma anche per contrasto o semplicemente per complementarità rispetto all’immagine che hai di te stesso». Perché la sorte della squadra «è un possibile diagramma del tuo destino». Un altro poeta (e interista), Giovanni Raboni, che andava allo stadio con Sereni (e il terzo era spesso Maurizio Cucchi), ha scritto: «Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita, di se stessi, di quello che si è stati, di quello che si spera di continuare a essere. È un segno, un segno che ognuno riceve una volta per sempre...». Oggi, abbiamo imparato che il tifo per la propria squadra purtroppo non coincide esattamente con l’essere tifosi della propria vita, anzi può nuocere come una febbre tifoidea. Anche se domenica in Piazza Duomo, troppi, per la felicità, se ne sono dimenticati.