la Repubblica, 4 maggio 2021
Il Dams di Bartezzaghi
Al Dams! Al Dams! Per gli studenti sprovveduti e velleitari che eravamo all’inizio degli Ottanta favolosa era la meta, uno Xanadu del sapere e un Eldorado dello sperimentare, e pressoché miracoloso aver ottenuto licenza di accedervi da genitori, anche giustamente un po’ perplessi («Ma perché scegli proprio l’unico corso di laurea che non c’è negli atenei della tua città?»). Non un’intitolazione incisa da decenni o secoli nei marmi di ogni accademia ma Arte, Musica, Spettacolo tenuti assieme in una pratica sigletta. Dams. Come ci si accertò subito, dopo il fatale 1980 Bologna non era più tanto sbarazzina e leggera e intanto nei piani di studio del corso di laurea erano comparse le prime paratie che rendevano meno agevoli i mirabili passaggi interdisciplinari dei primi anni. Rimaneva un gran posto per studiare. Non solo: testimoniava che quell’utopia – proprio quella che confusamente avevamo divinato dalle nostre periferie non solo urbane ma anche mentali, scolastiche e culturali – si era incarnata e topologicamente collocata in una sede precisa, centralizzata e anche ben affrescata. Fuori dal mito, avveniva però proprio davanti a noi che a lezione Anna Ottani Cavina proiettasse diapositive di quadri adespoti e incitasse noi studenti a commentare i Carracci e i David senza sapere che fossero, col buio che copriva i rossori dei nostri colpi a vuoto. Umberto Eco ci appassionava al Medioevo senza neanche mai citare il suo freschissimo bestseller. Gianni Celati recuperava l’oralità nei prediletti angloamericani Conrad e Melville, mentre metteva assieme i suoi Narratori delle pianure. E poi, e poi Camporesi, Squarzina, Calabrese, Leydi, Meldolesi, Anceschi, Fabbri, Volli, Scabia... Non sarà stato più il Dams eroico, spettinato e collegiale dei primi tempi, ma ci è andata di lusso lo stesso.