la Repubblica, 4 maggio 2021
Cinquant’anni di Dams
In principio era il Dams, «notre Dams» come dicevamo con affetto. E anche con gratitudine da parte di alcuni giovanissimi miracolati (io stessa) che ebbero la chance di ricevere un incarico d’insegnamento sulla fiducia, a fianco di docenti che a Bologna portavano quanto di meglio e di più innovativo potesse proporre la cultura a quegli anni.
Cinquant’anni fa, nel 1970/71 – che nostalgia ! – si apriva un nuovo corso di laurea, il quinto della Facoltà di Lettere e Filosofia. Il più dirompente, accanto a Storia, Lettere, Filosofia, Lingue, strutturati su discipline di lunga tradizione accademica. Il Dams invece se l’era inventato Benedetto Marzullo, figura aristocratica, illustre studioso di Aristofane, che dalla sua cattedra di Filologia classica terremotava dall’interno la cittadella accademica con un progetto di rigenerazione dell’intera area umanistica.
Pochi ormai quelli che possono raccontare gli inizi del Dams dal versante dei docenti chiamati a insegnare a Bologna, cinquanta anni fa. “Chiamati” per scelta, senza troppi passaggi burocratici.
Le porte dell’università si aprirono allora a intellettuali e studiosi che sperimentavano nuovi linguaggi e discipline che non avevano ancora uno statuto accademico (Istituzioni di regia, Semiotica, Progettazione ambientale….) o che, come la musica, mai erano entrate nel corpo vivo della formazione universitaria. Docenti autorevoli, proiettati sulle avanguardie, che mai l’istituzione avrebbe avuto l’ardire di includere senza i percorsi anticonvenzionali tracciati dal Dams quando Marzullo, dimentico del cerimoniale, assegnava gli incarichi pescando nelle élite a schema libero. Fu allora che il Dams, nella variante scanzonata di Umberto Eco, divenne notre Dams des charges, Nostra Signora degli incarichi, appunto!
Tutte le arti insieme, progetto vagamente crociano (arte come conoscenza), con un’idea forte, fondata su intersezioni programmatiche: parlare e comunicare oltre i recinti delle discipline.
La parola d’ordine (che non ci piaceva perché astratta e poco vissuta) era interdisciplinarità.
Non ci piaceva quel termine aulico, perché la realtà era invece tangibile. Il Dams, tutto il Dams (Arte Musica Spettacolo più l’area fluida ma fortemente magnetica di Comunicazione), era stipato in Strada Maggiore 34, al piano terreno di un palazzo appartenuto al conte Antonio Aldini, consigliere privato di Napoleone. Nelle stanze affrescate in età neoclassica si avvicendavano le lezioni di Squarzina, Eco, Maldonado, Clementi, Donatoni, Cruciani, Alfonso Gatto, Camporesi, Leydi, Celati, Bortolotto… Docenti venuti da lontano che si ritrovavano in un incantevole “Gabinetto pompeiano” (la sala dei professori) e poi nei portici e nei caffè insieme a studenti, come loro fuori sede.
Sto cercando di ricordare. Molti studenti in piedi, pigiati nelle stanze, e professori neofiti e informali sullo sfondo di un palazzo storico, dipinto nel 1805. Lontano anni luce da quei muri sfregiati e pieni di scritte che, in una delle sedi successive, via Guerrazzi, hanno stampato nella nostra corteccia cerebrale la storia di un Dams guerrigliero e sacrilego. Anni ormai cupi, intorno al 1977. A quel punto si era già consumata quella separazione dei luoghi di apprendimento che colpiva al cuore il progetto d’origine.
Strada Maggiore 34, nel mio ricordo, era uno spazio di libertà, anarchico e sperimentale. Si costruivano nuovi modelli e nuovi rapporti fra le discipline, nella condivisione degli spazi e del tempo. Non voglio dire che fosse banalmente una questione di porte (chi entrava, chi usciva) o di commissioni di esame, tutte intenzionalmente “impastate": io insegnavo Storia delle arti (non Storia dell’arte) e conducevo gli esami con due musicologi, Mario Bortolotto e Diego Bertocchi. Lo scambio era naturalmente anche a rovescio: mille cose stupende ho captato seguendo quegli esami di musica (come pure nei seminari a due voci, sul teatro inglese, condotti con Luigi Squarzina), dove Mario Bortolotto, reduce da Darmstadt «si inoltrava nei meandri della Neue Musik e approfondiva magistralmente i percorsi funerari del Lied romantico» (scriveva Mario Messinis).
Per sempre, accanto a figure che facevano scintille avendo un background enciclopedico e sterminato (Eco, Bortolotto…) oppure creativo e poetico (Donatoni, Clementi, Scabia, Celati …), ho preso coscienza del limite di quello che sarei stata in grado di fare, senza smarrire però quell’imprinting che tendeva a una visione integrata della cultura, a un sapere più glamour, a una storia avvincente delle idee.
Motore e anima di quella esperienza così radicale è stato, negli anni, Umberto Eco. Quella certa idea di cultura Umberto l’ha coltivata nel suo personale cammino e nella dedizione a progetti che coinvolsero molti di noi. Progetti che hanno scandito la sua presenza a Bologna fino alla costruzione della Scuola Superiore di Studi Umanistici, un tentativo ulteriore di realizzare un caleidoscopio di discipline a confronto, in antitesi agli specialismi verticali, senza dialogo.
I suoi progetti nascevano nei mesi invernali in città. D’estate il laboratorio si trasferiva nelle Marche, in collina. A Montecerignone, fra steli di malvarosa nel verde della casa di Eco (accessibile-generoso-ospitale, gli abbiamo voluto tutti un gran bene), si lavorava ai cd-rom per una storia del mondo, Encyclomedia, pensata come un labirinto dai mille incroci e linee di fuga, senza mai perdere la profondità temporale… Chissà poi se le pagine sui molti temi (scienza, tecnologia, filosofia, storia, letteratura, arte, teatro, musica) sono state all’altezza. Di certo i lemmi, le liste, quegli indici spericolati aprivano all’infinito sugli orizzonti dilatati della memoria, sempre cara ad Umberto Eco.
Le poche fotografie di quegli anni (niente selfie, si cliccava pochissimo), ci vedono insieme, professori e studenti un po’ scapigliati, alle mostre di Villa Medici a Roma, fra i capolavori del Rinascimento nella casa veneziana di Vittorio Cini e Lyda Borelli, all’esposizione Manet di Parigi nelle sale aperte per noi il martedì (quando i musei di Francia sono sbarrati). Come in un film di Buñuel, altre fotografie inquadrano quei docenti un po’ eccentrici perennemente riuniti a cena. “Senza fissa dimora”, forestieri in città, i professori transitavano nelle nostre case a Bologna con amici che non erano Dams (Ezio Raimondi, Gregotti, Anceschi, Ginzburg, Valesio, Arbasino) ma che gravitavano nell’area fluttuante di una cultura fortemente radicata nell’oggi eppure capace di svelare il passato con emozione e irriverenza. Per recuperare, nel gorgo della storia, una risposta al presente che viviamo.
Il presente era in primo luogo l’onda vitale degli studenti. Lo diciamo sempre, per salvarci l’anima, che sono loro a portare la linfa.
Ma il Dams agli inizi (quando era il corso di laurea più avventuroso e lunare) seppe davvero calamitare a Bologna studenti pieni di idee, studenti con molti numeri, che di rimbalzo alimentavano il pensiero dei professori.
Studenti che avendo già in mente un percorso (i più addirittura un progetto), più che al diploma di laurea, puntavano a saccheggiare l’università, i suoi corsi, la città, i molti incontri, scardinando le gerarchie, l’alto e il basso come si dice. Consapevoli tuttavia – diceva Paolo Poli – che «fra i canti delle mondine e L’infinito c’è ancora una certa differenza».